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Non avevamo bisogno di ulteriori dimostrazioni sulla mancanza totale di una linea comune dell’Unione Europea sulla politica estera. Non avevamo nemmeno bisogno di vedere, per l’ennesima volta, che l’influenza del club di Bruxelles sul mondo che la circonda conti pochissimo, per essere generosi.

Ma la Conferenza di Berlino, più che una giornata per cercare un’intesa sulla critica situazione libica, si è trasformata in un de profundis per la politica estera dell’Unione, la dimostrazione che non contiamo nulla e che persino uno che in questo momento conta meno di noi, ossia Fayez al-Serraj, può prendersi la libertà di affermare quello che è sotto gli occhi di tutti: a Berlino siamo arrivati tardi e divisi.

Chi vi scrive è un’europeista convinta, costretta a prendere atto come, per l’ennesima volta, le speranze e la fiducia di migliaia di persone si infrangano davanti all’incapacità dei singoli Paesi di saper leggere i cambiamenti in atto nella regione mediterranea. Qualcuno, leggendo questo mio incipit, potrebbe invocare soluzioni all’inglese o dire che è a causa dell’Europa che l’Italia ha perso il suo ruolo in Libia.

Se questo è successo, è perché di Europa ce n’è troppo poca, non perché ne esista troppa. Sta diventando un club di burocratiche sforna direttive, dalle quali noi a volte traiamo ampio giovamento, ma quando poi si passa alla politica estera, allora diventiamo i migliori amici di. E lo facciamo tutti, senza eccezioni.

Se il ruolo autonomo e deplorevole della Francia in Libia è tracciabile almeno dal 2010, va detto che il governo italiano in questa crisi avrebbe potuto fare due cose. O essere più incisivo fin dall’inizio o astenersi dal fare da capofila a una iniziativa europea prima, per poi cercare di accodarsi alla cordata Mosca-Ankara, mettendosi nelle mani di Recep Tayyip Erdogan, che al momento è il peggio che ci potesse capitare.

A voler ben vedere, la conferenza di Berlino è partita male ancora prima di iniziare. La Germania non ha invitato al tavolo dei negoziati la Grecia, un Paese che ha lottato e ha pagato con 10 anni di austerity gli errori commessi per restare in Ue, ma che, soprattutto, sarà la prima a essere coinvolta dall’accordo turco-libico, che non è riconosciuto dalle leggi internazionali ma che di fatto ridisegna le acque in cui compiere esplorazioni sui fondali alla ricerca di giacimenti di risorse naturali.

In compenso, ai tavoli, si è seduta la Gran Bretagna, che dall’Ue è uscita e che da ora in avanti perseguirà una politica estera ancora più autonoma di prima. I quotidiani greci hanno diffuso la notizia che a chiedere l’esclusione di Atene dal tavolo sia stata la Turchia. Il portavoce di Angela Merkel ha ovviamente smentito. Ma se pure questa voce fosse priva di fondamento, l’atto di resa a Putin ed Erdogan è ben visibile e innegabile.

Questo non è un atteggiamento di compromesso, è un atteggiamento arrendevole, che ci consegna in mani pronte a ricattarci e che soprattutto crea un precedente pericoloso perché per la prima volta a un tavolo internazionale l’alleanza di convenienza formata da Turchia e Russia è riuscita a dettare le leggi a una istituzione nata anche per garantire la pace e il rispetto dei diritti ai Paesi subito fuori dai propri confini.

Il fatto che Erdogan sia riuscito a spaccare senza nemmeno tanto sforzo la compagine europea, poi, dimostra come lui sia già in Europa, ma a modo suo, ossia dettando regole e cercando di spostare equilibri senza dover adempiere ad alcun obbligo.

Motivo in più per tenerlo il più lontano possibile, tanto, ora che può fare quello che vuole, l’unica cosa che gli interessa al massimo è la liberalizzazione dei visti.

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