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La guerra civile siriana sembrava conclusa, o almeno così spiegavano la Russia e l’Iran che hanno tenuto in vita il regime assadista, brutalmente responsabile di un sanguinoso massacro che ha ucciso oltre 500 mila persone. Il dossier siriano è stato l’origine della stagione terroristica dello Stato islamico e soprattutto dell’inizio delle fake news come arma di guerra, del ritorno della guerra dell’informazione e della costituzione di un sentimento anti-occidentale strategico. Da anni sembrava sopito, relegato a questione minore e minima. I ribelli erano stati nei fatti obliterati, schiacciati, la Russia e l’Iran avevano vinto la guerra (contro l’Occidente, le monarchie del Golfo e la Turchia), Bashar el Assad era ormai pronto alla riabilitazione politica e diplomatica — già ottenuta in regioni del mondo meno eticamente e moralmente vincolanti, mentre ci sono paesi in Europa che considerano di fornirgliela.

La premessa serve per creare il perimetro al contesto in cui ciò che è successo in questi ultimi due giorni diventa semplicemente sorprendente. L’assalto ribelle ad Aleppo è proprio questo. È vero che il regime di Assad non controlla il territorio per intero, vero che solo la porzione occidentale mediterranea è sicura (come lo è stato per tutta la guerra), vero che al nord e in una larga porzione della fascia orientale i gruppi ribelli hanno trovato un equilibrio e ora amministrano dopo aver sconfitto formalmente il Califfato: tuttavia, la caduta di Aleppo è qualcosa di enorme. Il giornalista Francesco Petronella sintetizza con un’immagine efficace per i lettori italiani: “Per intenderci su Aleppo: è come se il governo italiano perdesse il controllo su Milano (seconda città e cuore economico del Paese). Dopo averla persa, Assad impiegò quasi 5 anni a riprenderla, con l’aiuto di Hezbollah, russi e iraniani. Ora l’ha quasi persa in soli 3 giorni”.

Cos’è successo? Con ogni probabilità c’è una serie di circostanze, coincidenze, tattiche e strategie. Quando nel 2016 Assad riprese Aleppo, la battaglia fu spietata. Morirono decine e decine di persone, e le unità russe (sia i contractor della Wagner che le forze regolari scese in guerra dal 2015) furono determinanti per coordinare le operazioni affiancate da un gruppo di milizie sciite inviate dall’Iran insieme ad alcuni Pasdaran, che all’epoca non erano ancora troppo organizzati, fatta eccezione per Hezbollah. Non si menziona l’esercito siriano, perché come per il resto della guerra — e ad eccezione della Quarta divisione — ha sempre fornito un contributo marginale alla difesa del Paese. Tale è rimasto. Il risultato dell’impegno simultaneo di russi, Hezbollah e altre milizie potrebbe essere la ragione per ciò che sta accadendo. Banalmente, i primi faticano ad avanzare in Ucraina, gli altri sono coinvolti nella guerra attorno a Israele (con Hezbollah che è coinvolta direttamente in uno dei fronti).

Se è possibile che i ribelli abbiano aspettato l’incrocio di distensioni e debolezze del nemico, è anche vero che essi stessi si sono rafforzati. Ad esempio, le forze aeree russe hanno tentato di bombardare i ribelli, ma senza successo. Per anni, le unità anti-assadiste si sono raccolte in silenzio, hanno ricevuto assistenza militare, si sono organizzate. Il regime continuava a promuovere la narrazione della vittoria e non poteva continuare a combattere — sarebbe stato un controsenso nel raccontarsi vincitore. I gruppi sono rimasti circoscritti in determinate aree concordate dal governo assadista, ma non soggette ad alcun controllo. Le rare attività pubbliche confermavano che la volontà di rovesciare il regime non si era spenta. Una delle formazioni principali, Hayat Tahrir As-Sham, ha vissuto una stagione di cambiamenti; questo storico raggruppamento, presente in varie forme sin dai primi giorni della guerra civile, si è formalmente sganciato da al Qaeda nel 2019 e ora il leader, Abu Muhammad al Jawlani, chiede ai suoi di evitare vittime civili nell’offensiva. La riqualificazione è riuscita da tempo: l’amministrazione Trump in precedenza li aveva classificati “forza efficace contro i veri terroristi”, perché in effetti erano sempre stati considerati nemici dallo Stato islamico. Acquartierati a Idlib, hanno ricevuto sostegno dalla Turchia e ora sono una forza organizzatissima.

Hanno usato i droni: hanno monitorato lo spostamento dei governativi, ne hanno lanciati alcuni “kamikaze” per rallentare la controffensiva guidata dalle “Tigri” della 25esima Divisione, molti di questi sono stati utilizzati per sganciare ordigni. Secondo alcune ipotesi, potrebbe trattarsi di un supporto ucraino, ideato per distogliere risorse e attenzione dai russi, ma le conferme sono poche. Anche perché tra le tattiche che i ribelli hanno raffinato c’è quella della guerra dell’informazione: non controllano ancora tutta Aleppo chiaramente, ma i titoli dei giornali che hanno dedicato spazio all’accaduto parlano di “Aleppo è caduta” anche grazie all’alterazione del tessuto informativo orchestrata dai ribelli — che d’altronde negli anni si sono adattati anche a questo tipo di warfare. Tra le novità, anche l’utilizzo di unità di élite, in grado di penetrare le difese nemiche prima dell’assalto, con un addestramento e un equipaggiamento tipici delle forze speciali. Hanno anche usato artiglieria pesante, compresi carri armati e cannoni. Soprattutto, si sono mossi in modo coordinato, aumentando l’efficacia anche grazie alle comunicazioni forse guidate da un comando sul campo. Per chi pensava che la guerra civile siriana fosse finita e Assad un vincitore sicuro, la realtà ha mandato un messaggio chiaro. Anche per queste ragioni sono ricominciate le alterazioni della realtà con cui descrivere i ribelli come terroristi, membri dell’IS, nemici coordinati da Israele o dall’Ucraina per conto dell’Occidente. Narrazioni che, paradossalmente, potrebbero attecchire ancora una volta in Occidente.

In Siria non era finita. I ribelli di nuovo ad Aleppo

La guerra civile siriana sembrava conclusa, ma l’assalto ribelle ad Aleppo riapre scenari inaspettati. Approfittando delle debolezze del regime e dei suoi alleati, i ribelli hanno sferrato un’offensiva coordinata, mettendo in crisi il controllo di Assad sulla città simbolo. Un conflitto che sembrava sopito torna nella cronaca, e con esso i suoi riflessi

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