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Tempismo perfetto. Il giorno dopo il sì del Senato all’autorizzazione a procedere per il processo sul caso Gregoretti, Matteo Salvini si ritaglia una finestra sul mondo e inaugura la svolta della Lega, che “non è destra radicale” e vede negli Stati Uniti “gli alleati naturali”. La finestra è offerta dalla sede della stampa estera di Roma. In conferenza stampa, affiancato dal vice Giancarlo Giorgetti, il leader illustra di fronte a una sala gremita di cronisti internazionali incuriositi, la strategia del Carroccio per capitalizzare, all’estero, un bagaglio di voti che in casa vale più del 30%. Il tandem con Giorgetti, anima moderata e dialogante del partito che più volte ha tirato per la giacchetta il leader per evitare sterzate centrifughe, non è certo un caso. E infatti c’è già chi parla di “svolta giorgettiana” della Lega.

L’esordio è da copione: un’arringa sulla persecuzione giudiziaria del capo-popolo, reo di aver “difeso la patria”, ripete Salvini di continuo. “È il prezzo da pagare in Italia per chi è il naturale candidato premier – lo soccorre Giorgetti – da quando ha vinto le europee sono iniziate le sue disgrazie”. Dopotutto, a fronte di un “governo in stallo”, il ritorno a Palazzo Chigi è solo “questione di tempo”.

La strada è meno in discesa di quanto Salvini voglia far sembrare. Anche a questo serve il punto stampa a favore delle telecamere estere: sbrigliarsi di dosso lo stereotipo del “partito di estrema destra”, “far-right”, che continua a esercitare un irresistibile fascino nei giornali internazionali. L’ex vicepremier lo fa con uno strappo al fair-play. Come da copione, arriva la domanda sul derby in corso nella destra italiana fra la Lega e Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni che cavalca in doppia cifra nei sondaggi e si fa bello all’estero ricamando una fitta rete di rapporti con i conservatori europei e la destra americana.

“Non essendo destra radicale, non abbiamo competitor”, dice Salvini c0n una stoccata alla giovane leader della Garbatella che promette di riattizzare le scintille fra alleati. Tradotto: Lega ed FdI giocano in due campionati diversi. Se cercate la destra moderata, siete nel posto giusto. “Noi – rincara il leghista – siamo un partito che parla a tutti”, ma poi precisa: “Più crescono i movimenti alla nostra destra, ma non solo, meglio è. Non basta il nostro 30%. Non deve crescere solo Giorgia Meloni, ma Berlusconi, Toti”.

Fatti gli onori di casa, Salvini passa a snocciolare la grand-strategy di via Bellerio per prendersi i palcoscenici internazionali e tornare al governo. Amici di tutti, nemici di pochi è il motto che sottende la nuova road map. Amici degli Stati Uniti, “i nostri naturali alleati”. Lì è in programma la prossima visita estera, garantisce Salvini, “compatibilmente alla campagna per le regionali”.

Anche su questo fronte si giocherà nei prossimi mesi la corsa interna al centrodestra italiano per attirare il favore del presidente Donald Trump. Meloni ha già iniziato. A inizio mese ha partecipato al National Prayers Day, appuntamento che ha visto come ogni anno la presenza del numero uno della Casa Bianca.

A fine febbraio tornerà a Washington DC per parlare il secondo anno consecutivo alla Cpac (Conservative political action conference), ancora una volta alla presenza di Trump. Salvini dovrà trovare altri canali, magari facendo affidamento sulla rubrica che ha accumulato da vicepremier e che, lo scorso maggio, quando era ancora al governo, gli ha garantito un comitato d’accoglienza non banale negli States: il vicepresidente Mike Pence e l’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton. Intanto ribadisce l’asse con l’alleato d’oltreoceano: sull’amicizia con Israele e i rapporti con l’Iran, la Lega è “allineata”.

Sul nodo più spinoso di tutti, il Russiagate e il suo affluente italiano, il caso “Moscopoli”, la narrazione di Salvini si fa meno roboante. L’indagine della procura di Milano sulla presunta partita di gasolio al centro di una trattativa fra emissari della Lega e alti funzionari del governo russo in cambio di un finanziamento del partito è ancora aperta. Salvini, infastidito, “non posso giudicarmi da solo”, passa la palla a un imbarazzato Giorgetti che si affretta a chiudere: “Fa ridere pensare che siamo agenti al soldo di Mosca pagati per scardinare l’Europa, siamo qui grazie al nostro lavoro e soprattutto alla capacità di Matteo Salvini”. Inchieste a parte, Salvini non accenna a un minimo cambio di posizione sui rapporti con la Russia e con Vladimir Putin che non sono visti di buon occhio a Washington DC. Il copione è già scritto: le sanzioni Ue sono “insensate”, Putin è “un apprezzato e stimato uomo di Stato” e la Lega al governo lavorerà per “migliorare i rapporti economici, culturali, gastronomici” con la Russia.

Anche la strategia in Ue non sembra avviata a grandi ripensamenti. Niente “minibot” o uscita dall’euro, rassicura Salvini. Ma non ci sono i presupposti per una mano tesa al Partito popolare europeo (Ppe) che “mostra una preoccupante virata a sinistra” con il riavvicinamento ai Verdi e non poche difficoltà, anche a causa del terremoto interno alla Cdu di Angela Merkel. L’obiettivo rimane quello di “un grande gruppo con una visione dell’Europa più moderna, alternativo al Ppe e ai Socialisti”.

I numeri citati da Salvini, “140 -150 deputati”, non lasciano dubbi: è la somma esatta degli eurodeputati del gruppo sovranista di cui fa parte la Lega, “Identità e Democrazia”, e del gruppo conservatore, “Conservatori e riformisti europei”. Peccato questi ultimi non siano così ben disposti all’idea di un gruppo unico. O meglio, sono disposti, ma a una sola condizione, che difficilmente andrà giù al “Capitano”. Lo ha confidato il loro presidente Ryszard Legutko a Formiche.net: “Fatemi essere chiaro, casomai Salvini decidesse di unirsi al nostro gruppo, dovrebbe prima chiedere l’approvazione di Giorgia Meloni. Se Fratelli d’Italia non è d’accordo non si può fare”.

Salvini lancia la Lega nel mondo (e il derby con la Meloni)

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