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Tra due giorni, il presidente russo Vladimir Putin sarà il presidente ospitante del vertice Russia-Africa organizzato a Sochi, il buen retiro dello Zar sul Mar Nero, e condividerà il ruolo di guida nel dialogo programmatico con l’egiziano Abdel Fateh al Sisi. Il dualismo Russia-Egitto sembra evocare i tempi della Guerra Fredda, quando il Paese nordafricano era terreno di competizione e scontro tra le potenze dei due blocchi, e sebbene in questo caso il ruolo dell’egiziano sia legato al compito da presidente di turno dell’Unione Africana, sulla sfondo qualcosa di simile si può intravedere.

Mosca cerca spazio in Africa. Una regione in cui trova un terreno di competitività aspro, dove i Paesi occidentali sono già piazzati da anni e dove la Cina ha spinto la propria penetrazione nell’ultimi decennio, creando uno spazio che vale 200miliardi di dollari di interscambio commerciale. Un obiettivo sognato dai russi, fermi a meno di un decimo per il momento: e anche per questo da poco si sono mossi per entrare nel comparto societario di Afreximbank, la banca che cura l’import-export africano.

Il vertice guidato da Putin è una mossa geopolitica disinvolta ed esplicita che conferma alcune attività seguite da diverso tempo dagli osservatori internazionali. Affari chiusi da società collegate al Cremlino in vari paesi africani, attività politiche e contatti di delegati e collaboratori russi inseriti all’interno dei circoli governativi di certi stati, presenza di gruppi di contractor che lavorano a fianco delle forze armate più o meno regolari o di alcune milizie politiche in certe aree. Vivacità coordinata dal ministero degli Esteri, guidato da Sergei Lavrov, sotto la delega speciale di Mikhail Bogdanov, espertissimo dell’area Mena (Middle East and North Africa) a cui è affidata la gestione della regione.

Saranno quaranta i Paesi presenti, alcuni – come Angola, Congo, Sudafrica, Mali e Madagascar – rappresentanti direttamente dai propri capi di stato, davanti a cui Putin piazza i giganti dell’economia politicizzata del Cremlino: Gazprom, Rosneft e Lukoil per il settore idrocarburi; Alrosa che si occupa di attività estrattive di pietre preziose e che sette anni fa ha scalzato De Beers dalla guida del mercato dei diamanti, e ha già messo gli occhi sulle kimberliti africane; Uralkali e Uralchem che sfrutteranno le tecniche di agricoltura avanzata con cui sfruttare il suolo africano per vendere i propri fertilizzanti; Rosatom che proverà la collaborazione sul nucleare con le realtà più sviluppate; Rosoboronexport per piazzare armi agli eserciti del continente oltre ai già venti accordi chiusi negli ultimi sedici mesi per le partnership industriali del settore che gli hanno permesso di arrivare a coprire una fetta pari al 35 per cento del mercato, contro il 17 cinese (Usa sotto al dieci, per intendersi).

Da notare che tutte queste società sono rappresentante da personaggi del ristretto circolo putiniano che hanno già avuto problemi con le attività di penetrazione politica del Cremlino e per questo sono stati messi sotto sanzioni – collegate per lo più all’annessione della Crimea o all’interferenza nelle campagne politiche americane o europee. Per esempio, la Rosneft è guidata Igor Sechin, sanzionato dal Tesoro americano fin dall’aprile 2014, così come Alexej Miller di Gazprom è su una lista nera speciale (SDN), simile a quella in cui si trova Rosoboronexport. E via dicendo.

Impostare il lavoro di questi colossi oltre a quanto già fatto, permetterà a Mosca di trasformare il posizionamento africano dal piano business a quello politico, specialità in cui eccelle la Wagner, società di contractor militari collegata a Evgeny Prighozyn – alias: Il cuoco di Putin – che nel menù serve come piatto forte lo scambio di aiuti di carattere militare (armi, addestramento, sostegno attivo, stabilità aiuti ai governi) con lo sfruttamento delle risorse e l’allineamento politico in situazioni delicate.

Per esempio in Libia, Prighozyn dove aiuta le ambizioni di Khalifa Haftar, il miliziano ribelle che vuole rovesciare il governo onusiano di Tripoli guidato da Fayez Serraj, che invece sarà ospite ufficiale del vertice di Sochi (è un paradigma di come la Russia gestisca questo genere di attività); oppure nella Repubblica Centrafricana, dove i mercenari di Putin si sono piazzati a protezione – leggasi: gestione – delle miniere e nei corridoi dei palazzi di Bangui danno consigli al presidente Faustine Touderà; ma non solo, ancora: la Wagner è attiva anche in Congo, Madagascar, Angola, Mozambico, Zimbawe, Guinea e Guinea-Bissau.

A leggere tra le righe, tutto è già pubblicato nel “Russia-Africa Shared Vision 2030“, documento di indirizzo per le politiche russe in Africa. Sintesi estrema: “Tra il crescente interesse per l’Africa (per l’ennesima volta), le istituzioni private e pubbliche russe necessitano di una tabella di marcia affidabile che consenta loro di evitare almeno alcuni degli errori che sono già stati commessi ripetutamente”. Lo dice l’incipit sul sito creato per tenere costantemente aggiornata la dottrina che mira a un quadro ampio, quello in cui la Russia cerca spazi di influenza prendendosi un ruolo nei processi soci-politici regionali.

Però attenzione: se un tempo il principale competitor in quelle aree sarebbe stato l’Occidente, con i collegamenti derivanti dalle epoche coloniali europee e con la forza dell’impero statunitense, ora la lotta per il controllo dell’Africa Mosca la deve condividere con Pechino. La Cina ha con la Russia una sorta di bromance fortemente legata a un’utilità, la postura anti-Usa (e anti-occidentale in genere), ma questa vicinanza è delicatissima. Il decoupling sino-russo è questione tutt’altro che impossibile, anzi: ci sono quadranti come l’Africa che potrebbero creare situazioni di evidente competizione e impossibile co-abitazione; e non solo, questioni del genere dal punto di vista geopolitico potrebbero interessare il Sudamerica, la Siberia, e perfino l’Artico.

Mosca cerca spazio in Africa. La strategia di Putin a Sochi (contro Pechino?)

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