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Cronaca di ordinaria amministrazione o trama di un giallo internazionale? Fatti, sospetti e scenari si intrecciano senza soluzione di continuità nel “Russiagate italiano”. Due visite in Italia del procuratore generale degli Stati Uniti William Barr, il 15 e il 27 agosto, approdato nella capitale lontano dai riflettori per incontrare i vertici dei Servizi italiani su autorizzazione del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, sono ora al centro di una polemica rimbalzata sulla stampa internazionale. I fatti, almeno quelli di pubblico dominio, sono i seguenti.

Il capo della Giustizia americana si è intrattenuto a Roma in un briefing con Gennaro Vecchione, Luciano Carta e Mario Parente, direttori di Dis, Aise e Aisi, dopo aver ricevuto l’ok di palazzo Chigi. Obiettivo delle due trasferte: chiedere agli 007 italiani  informazioni su Joseph Misfud, professore maltese di un istituto londinese apparso alla Link Campus per qualche convegno e poi sparito dai radar nel 2017, che secondo un consigliere della campagna presidenziale di Donald Trump, George Papadopoulos, avrebbe rivelato nel 2016 l’esistenza di “migliaia di mail imbarazzanti su Hillary Clinton” in mano ai russi. Da questa soffiata ha preso il via l’indagine biennale sul “Russiagate” del team guidato dal procuratore speciale Robert Mueller, conclusasi con l’assoluzione del presidente dall’accusa di collusione ma non da quella di ostruzione alla giustizia.

A metà maggio scorso il presidente era passato al contrattacco. Barr aveva annunciato l’avvio di un’”inchiesta sull’inchiesta”, cioè un’indagine a ritroso sul lavoro di Mueller per capire come “sia stato usato il potere del governo per spiare i cittadini americani”. Affidata al procuratore del Connecticut John Duhram, al fianco di Barr durante i suoi incontri con l’intelligence italiana, è ancora in corso ed è seguita attentamente dalla Casa Bianca.

In questo quadro va collocata la richiesta di collaborazione da parte del governo americano alle autorità italiane. E l’autorizzazione dei due vertici da parte di Conte, allora premier del governo gialloverde. Un sì che ora sarà posto all’attenzione del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), cui ha dato piena disponibilità per essere audito sulla vicenda (audizione che comunque, come vuole la prassi per ogni governo, si sarebbe tenuta a breve).

La storia è certamente degna di attenzione. Purché si resti ai fatti, senza cedere alla tentazione di darle un colore noir a tutti i costi. Lo stesso nome di battesimo che buona parte della stampa le ha affibbiato, “Spygate”, è sintomo di una corsa allo “scandalo” che rischia di finire in un binario morto. Due le facce della medaglia che alimentano l’alone di mistero.

La prima ha a che vedere con chi per primo ha definito l’Italia “l’epicentro della cospirazione”: Papadopoulos. Trentadue anni, americano di origini greche, l’ex consigliere di Trump (declassato dal presidente a “volontario di basso livello”, e dalla sua amministrazione a “ragazzo del caffè” agli inizi delle indagini) nel novembre 2018 ha trascorso due settimane in una prigione federale del Wisconsin per aver ripetutamente dichiarato il falso al team di Mueller sui suoi incontri con funzionari russi. La sua testimonianza sulla vicenda Russiagate presenta decine di falle, è cambiata altrettante volte ed è stata ritenuta poco credibile da una schiera bipartisan di repubblicani e democratici. È però confluita in un best-seller, “Deep State target”.

La seconda è tutta italiana e vede Conte come imputato numero uno. Il presidente aveva o no facoltà di autorizzare gli incontri di Barr con i capi dell’intelligence e di non renderli pubblici? Sì, ne aveva facoltà. Come si è spiegato su queste colonne, Conte detiene legittimamente la delega ai Servizi (che anche nei due scorsi governi è rimasta nelle mani dell’inquilino di palazzo Chigi). Come gli stessi addetti ai lavori riconoscono, “delegare è una facoltà, non un dovere”. Di collaborazioni fra autorità giudiziarie e mondo dell’intelligence fra due Paesi alleati come Italia e Stati Uniti se ne contano svariate nel lontano e recente passato. Nessuno strappo alla regola, dunque. Ha fatto discutere l’incontro fra vertici dei Servizi italiani e un politico straniero come Barr. Dell’opportunità, come abbiamo detto, si occuperà il Copasir. Anche qui però, nota chi è del mestiere, si tratta di una scelta che “semmai contravviene a un protocollo, non certo alla legge”.

A dare adito ai sospetti che circondano il cosiddetto “spy-gate” un articolo del Daily Beast, secondo cui i vertici dei Servizi a palazzo Margherita, sede dell’ambasciata Usa, avrebbero fatto ascoltare a Barr e Durham una deposizione audio di Misfud risalente al 2017 in cui il professore chiedeva protezione alle forze dell’ordine italiane. Ricostruzione che non ha ricevuto alcuna conferma dal Dipartimento della Giustizia Usa, e smentita da ambienti di intelligence italiana come inverosimile.

Chiude il cerchio della presunta spy-story l’attenzione quasi morbosa che una parte del mondo mediatico dedica da tempo all’Università Link Campus presieduta e fondata dall’ex ministro Dc Vincenzo Scotti. Il quale ha sempre spiegato che Misfud non è mai stato un professore inquadrato nell’ateneo, dove ha semplicemente partecipato a una manciata di conferenze. Sulla figura del maltese e sulla sua irreperibilità restano non pochi dubbi da sciogliere, anche se non si vede come si possa collegare la sua vicenda a un’università dove ha fatto solo sporadiche apparizioni a convegni pubblici.

Scotti ha altresì difeso fin dall’inizio i rapporti che la Link intrattiene con il mondo dell’intelligence. Relazioni di cui l’ateneo ha fatto un vanto negli anni, alla luce del sole, e che in qualsiasi altro Paese, a cominciare dagli Stati Uniti, costituiscono l’abc per le università che si occupano di sicurezza nazionale, non di rado impegnate in una gara per invitare e ospitare ad eventi pubblici i capi dei Servizi.

Per farla breve, non sembra ci siano i presupposti per scorgere nell’Italia il “centro” di un intrigo internazionale. Gli incontri dei direttori dei Servizi non hanno avuto luogo in polverosi scantinati. Sono stati autorizzati, nel pieno delle sue facoltà, dal presidente del Consiglio. E non hanno avuto come controparte anonimi emissari di governi stranieri, ma il responsabile della Giustizia di un Paese alleato con cui da sempre esistono scambi regolari di informazioni e collaborazione giudiziaria. Né, a quanto emerso, alla loro attenzione sono state sottoposte informazioni che possano mettere a repentaglio la sicurezza nazionale.

La collaborazione è piuttosto da leggere come indizio di un rapporto tutt’altro che torbido o chiaroscurale fra le autorità dei due Paesi. Insomma, se di qualcosa sono colpevoli i vertici dei Servizi è di aver fatto il loro mestiere. L’audizione al Copasir di Conte chiarirà quel che resta da chiarire sulla vicenda, come è giusto che sia. Nel frattempo, meglio astenersi dalla stesura di un romanzo giallo sul via vai di spie e oscuri funzionari esteri per le strade della capitale. Tutte le strade portano a Roma, anche quelle del governo americano. Ma questa non è un’anomalia, e tantomeno una novità.

Italia hub degli intrighi internazionali? No, grazie. Ecco perché

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