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Il drone statunitense che ha colpito il comandante delle forze iraniane Qassem Soleimani ha portato ancora una volta alla ribalta il problema degli obblighi giuridici sia a livello del diritto interno che internazionale sul potere che ha il Presidente degli Stati Uniti di agire unilateralmente con lo strumento della forza militare. Tre punti vanno scardinati su questa questione per fare un po’ di chiarezza.

Esiste nel sistema ordinamentale statunitense la cosiddetta War Power Resolution – Risoluzione sui Poteri di Guerra del 1973 – che prescrive l’obbligo per il Presidente di informare il Congresso e averne l’autorizzazione per protrarre un’azione bellica oltre 60 giorni, svolgere qualsiasi operazione bellica solo sulla legge e, infine, acquisire il consenso del Congresso per sospendere le garanzie costituzionali in caso di emergenza.

Un documento che ha come obiettivo quello di circoscrivere la discrezionalità del Presidente nell’impegnare tutte le forze armate in un conflitto bellico, in modo da riportare la decisione sull’uso della guerra nell’ambito di una decisione collettiva. Si aggiunga anche che tale Risoluzione prescrive che, qualora avvenga l’inizio di un’operazione bellicosa senza l’autorizzazione del Congresso, il Capo della Casa Bianca è in dovere di colloquiare con l’Assemblea prima di dare mandato alle truppe e anche di tenerla informata degli eventi operativi di guerra. Altro aspetto importante di questo documento del 1973 concerne la riserva al Congresso di ordinare facoltativamente al Presidente con una risoluzione il ritiro delle truppe dalle aree di conflitti.

Non va però dimenticato che, negli anni passati, il Congresso non ha fatto nulla dopo l’approvazione di questa Risoluzione, tranne supportare finanziariamente le operazioni militari nel quadro dell’Authorization to Use Military Force (autorizzazione di impiego della forza militare) durante la presidenza di George W. Bush e di Barack Obama.

La posizione degli Stati Uniti si focalizza sull’uso della forza in Libia, Iraq e Siria che non ha richiesto l’autorizzazione del Congresso perché le ostilità previste non sarebbero salite al livello di una guerra in senso costituzionale, ossia di rappresaglie circoscritte, che non avrebbero costituito il coinvolgimento statunitense contro un altro Stato.

Da ciò si potrebbe presumere che, dopo l’attacco mirato contro il numero due iraniano e l’ulteriore attacco contro il convoglio iracheno con a bordo alcuni miliziani degli Hezbollah, la circoscritta azione militare potrebbe mutare in un inizio di un vero e proprio conflitto bellico tra gli Stati Uniti e l’Iran, dove il Congresso sarà vincolato dall’applicare il potere di autorizzazione di guerra.

Questa linea potrebbe bloccare il livello di guerra per due ragioni. In primo luogo, questo attacco verrà motivato come un atto di legittima difesa dell’articolo 2 della Costituzione ovvero come valvola che eviti il diritto di autorizzazione di guerra. La seconda ragione è che ci sono altre opinioni che hanno una visione più ampia dei poteri costituzionali del Presidente in un contesto molto vicino a questo caso rispetto alle opinioni di intervento umanitario, ai sensi del diritto internazionale dei conflitti armati.

Dall’angolatura del diritto internazionale, invece, è ben chiaro che gli Stati devono evitare di usare ogni forma di forza armata nelle relazioni internazionali. L’attacco sul territorio iracheno è stato efferato. Non si comprende se le autorità di Bagdad erano state informate per poi dare il via libera, mediante il consenso, a compiere tale azione militare. La Casa Bianca, in concerto con il Pentagono, ha comunicato che il governo dell’Iraq era stato informato dell’obiettivo mirato, cioè quello di colpire il generale Soleimani, senza colpire abitazioni civili o strutture dello Stato iracheno. Il primo ministro iracheno Adel Abdul-Mahdi invece, con un twitter, ha condannato l’uccisione mirata come violazione degli accordi stipulati circa i loro compiti e la loro presenza sul suolo iracheno.

Ora, il presidente Trump non può fare appello al suo diritto di legittima difesa, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, dato che il territorio statunitense non è stato oggetto di alcuna aggressione o minaccia di attacchi da parte dell’Iran; non solo, neppure può dimostrare che lo Stato iracheno non sia in grado di affrontare ogni minaccia terroristica e di altro genere proveniente dall’Iran, nel senso che l’Iraq dopo la disfatta dell’ISIS è fuori dal criterio unwilling or unable. Criterio che a ben vedere non può essere giustificato da parte dell’amministrazione Trump come misura difensiva in assenza del consenso dell’Iraq, Stato sovrano e indipendente.

Di certo non è semplice, almeno per adesso, ritenere se l’attacco del drone, battente bandiera statunitense, possa essere inquadrato nella liceità oppure no e nel quadro del diritto interno e di quello internazionale. Nonostante queste incertezze sulla legittimità o meno degli Stati Uniti del comportamento tenuto in territorio iracheno, resta il fatto che l’Amministrazione Trump si giustificherà con la solita filastrocca che anche i suoi predecessori sono intervenuti militarmente per ragioni prettamente difensive.

La posizione di Trump è stata contestata dal senatore Tim Kaine, che ha presentato una Joint Resolution (S. J. RES.DAV20002/2d Session, 3 gennaio 2020), concernente i poteri di guerra in base alla quale il Presidente non deve coinvolgere le truppe in un conflitto eventuale contro la Repubblica islamica dell’Iran senza che vi sia l’autorizzazione del Congresso, che ha il potere di dichiarare guerra ai sensi dell’articolo I, sezione 8, clausola 11 della Costituzione statunitense. Inoltre, viene anche evidenziato in questa Risoluzione che i membri del Congresso non si sono ancora espressi per un intervento militare ampio, né emesso un’autorizzazione statutaria specifica per l’uso della forza armata contro l’Iran.

In breve si può solo attendere cosa accadrà nelle prossime settimane, con la speranza che i contendenti (Stati Uniti e Iran) risolvino la loro controversia, che dura da anni, da quel lontano 1979, con l’occupazione dell’ambasciata e del consolato statunitense, con mezzi pacifici e con l’intervento, come mediatore, del Consiglio di Sicurezza, che ha già discusso della questione in senso al Palazzo di Vetro, a porte chiuse.

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