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Come si compone il brodo di coltura della “rabbia” dei popoli europei e occidentali?

È questa la domanda che si pone “Popolo e populismo”, di Alessio Postiglione e Angelo Bruscino, edito da Cairo.

Una prospettiva semplice assegna il tempo dei populismi alla fase specifica del XXI secolo in cui, trascorsa l’ubriacatura dei fasti della globalizzazione, contro le élite mondiali si avventano correnti politiche che, pur nella loro eterogeneità, sgorgano nel fronte frastagliato della richiesta di giustizia sociale.

Sotto il profilo complessivo del loro flusso interno e del loro senso nel e del mondo, quei movimenti mantengono un carattere generale di generale equivalenza.

Il libro è un’eccezionale carrelata sulle asimmetrie che infestano il contemporaneo, l’ineguaglianza e il nuovo assetto della produzione e del capitale: gli autori –fondendo i loro retroterra giornalistici ed economici- interpretano abilmente lo spirito del tempo che viviamo.

In che mondo viviamo?

Non si capisce nulla infatti di quello che sta avvenendo in Occidente se non si coglie che la globalizzazione più la crisi dei mutui subprime in America prima e quella dei debiti sovrani in Europa poi hanno prima salassato e poi colpito in maniera feroce la classe media, assai più di quelle popolari e di quelle alte. Secondo alcuni studiosi la classe media sarebbe stata completamente cancellata.
Prima, sul piano economico con la perdita di posti di lavoro, la diminuzione delle entrate, il crollo degli investimenti familiari, il deprezzamento delle proprietà; poi, sul piano valoriale e simbolico.
Come scrivono gli autori: “La globalizzazione è il vero killer della classe media”.

In generale, la ricchezza si concentra nelle mani di chi controlla le innovazioni su vasta scala e, d’altra parte, il progresso tecnico non fa che amplificare incessantemente il divario fra la produzione oraria di un lavoratore e la sua retribuzione: oggi, nei 19 paesi più industrializzati, lo scarto è addirittura di due volte superiore rispetto ai valori di vent’anni fa.

Inoltre, in molti paesi è peggiorata la redistribuzione del reddito: dalla deregulation finanziaria degli anni ’80 ad oggi gli indici di disuguglianza sono in netta crescita.
Potremmo anche evitare di fare i conti. Basta leggere Forbes e vedere i salari di un dirigente di una multinazionale.
Thomas Piketty ha esaminato dei dati: dal 1983 ad oggi, l’1% più ricco in Francia ha aumentato del 100% il proprio capitale, mentre tutto il resto solo del 25%.
Negli Stati Uniti un CEO guadagna 276 volte il salario medio della sua azienda, contro un rapporto di 20 a 1 registrato nel 1965. Pianta e Franzini hanno spiegato bene come anche l’Italia sia una plastica rappresentazione di questo iato della globalizzazione, per la quale abbiamo ricchi sempre più ricchi e sempre di meno come numero, e poveri sempre più poveri e più numerosi.

“L’assunto delle élite occidentali, che il capitalismo globalizzato avrebbe portato democrazia e benessere, è fallito. –scrivono gli autori- Ed è fallito anche il retropensiero che ciò avrebbe garantito il primato dell’Occidente.”

La crescita assai più rapida dei paesi emergenti e in via di sviluppo ha ridotto i divari di reddito tra paesi e la disuguaglianza a livello globale. In parallelo è però cambiata la distribuzione dei redditi all’interno dei singoli paesi, nella maggior parte dei casi nella direzione di una maggiore disuguaglianza. La disuguaglianza è diventata “nazionale”: a una minore distanza di reddito tra americani e cinesi si è in parte sostituito un allargamento dei divari tra i ricchi e i poveri sia negli Stati Uniti sia in Cina.

Queste tendenze hanno determinato una ricomposizione della distribuzione globale del reddito, ben sintetizzata dal famoso “grafico dell’elefante” di Branko Milanović, che mostra il ritmo di crescita del reddito reale ai diversi percentili della distribuzione registrato a partire dal 1988: è stato particolarmente basso per la popolazione più povera, che si trova soprattutto nell’Africa sub-sahariana, e per le classi medie dei paesi avanzati; è stato invece molto elevato per la popolazione dei principali paesi emergenti, così come per la popolazione più ricca, concentrata nei paesi avanzati.

Le disuguaglianze tra individui hanno una natura caleidoscopio: non riguardano solo la sfera del reddito, ma anche quelle della ricchezza, dell’istruzione, della qualità del lavoro e persino della salute. In particolare, la mobilità intergenerazionale si è ridotta: ora i figli hanno timore di vivere a livelli minori rispetto i propri genitori.

Qui insorge la realtà con le sue crisi di rigetto: in Occidente si è espressa salendo i gradini della rivolta populista e nazionalista che, specifichiamo, non è il problema, ma la manifestazione del problema.

La geografia politica contemporanea -raccontano gli autori parlando della trasformazione della socialdemocrazia- ha visto la riduzione della banda di oscillazione delle opzioni in un ambito sempre più ristretto e dall’alto tasso di pragmatismo e occasionalità. La conseguenza è stata una tendenza generale verso il centro attraverso l’assunzione di un residuo ideologico progressista sul piano etico-culturale e di un crescente pragmatismo liberista sul piano economico-sociale, nel quadro di un indebolimento strutturale della sovranità politica in favore di un rafforzamento dei poteri tecnocratici ed economici. È la “gauche caviar”, la sinistra che vince solo nei centri urbani più grandi e ha presa solo nelle classi colte: in Italia, la trasformazione del PD in PDP, Partito dei Parioli.

Postiglione e Bruscino forniscono al lettore gli strumenti utili a incastonare i momenti che compongono la quotidianità delle notizie in un mosaico complessivo ed esaustivo di un mondo che sta terminando, e di uno nuovo che sta nascendo.

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