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I talebani sono “furiosi”, mandano un messaggio agguerrito agli Stati Uniti contro la decisione con cui Donald Trump ha fatto sapere, via Twitter, di aver interrotto il dialogo che dovrebbe portare a un qualche genere di pace in Afghanistan e al ritiro parziale delle truppe Usa.

Se ne “pentiranno presto”, ha dichiarato il portavoce dei ribelli jihadisti alla AFP. “Ci sono due modi per terminare l’occupazione dell’Afghanistan, quello della jihad e dei combattimenti e quello delle discussioni e dei negoziati. Se Trump vuole cancellare le trattative, noi proseguiremo sulla prima strada e se ne pentiranno presto”.

È uno scenario che tutti gli analisti prevedono – su queste colonne ne ha parlato a caldo Claudio Bertolotti del Cemiss. Ossia, il rischio dietro a quello che potrebbe essere anche un bluff negoziale pensato da Trump per stressare i colloqui (dopo che i Taliban avevano rivendicato un attentato, e dunque dimostrato un’aderenza relativa al processo negoziale) è il ritorno all’azione intensa da parte dei ribelli.

I Talebani controllano ampie fette di territorio, il governo afghano non riesce a tamponarli, le forze di sicurezza del paese sono ancora deboli e impreparate. Tutto, nonostante il sostegno occidentale, espresso sia nei termini di una missione Nato, che in quelli di una unilaterale statunitense. Che cosa potrebbe succedere al paese senza un grosso contingente americano? È un cruccio che riempie le notti dei comandanti del Pentagono e dei funzionari del dipartimento di Stato e dell’intelligence, e che, bluff a parte, potrebbe essere arrivato fino alla Casa Bianca inducendo il presidente – iper-desideroso di chiudere “the endless war”, la guerra senza fine, la più lunga della storia americana, anche per rivendicare il successo in campagna elettorale.

Poche ore dopo l’annuncio di Trump, di sabato, il segretario di Stato, Mike Pompeo, era ospite in televisione in un paio di programmi giornalistici domenicali di approfondimento a dire che gli Stati Uniti “negli ultimi dieci giorni avevano ucciso oltre mille talebani”, ma anche che i colloqui non erano del tutto persi, e Washington avrebbe potuto riprenderli in qualsiasi momento perché “il presidente ancora non ha deciso niente” di definitivo.

Val la pena ricordare che in mezzo a questo contesto caoticizzato da tira e molla, reazioni e contro-reazioni, crucci, necessità politiche e strategie, c’è un attore latente che prende spazi: lo Stato islamico. La provincia locale baghdadista, ISK, dove “K” sta per Khorasan (un’entità geografica storica che era situata al confine iraniano tra Afghanistan e Pakistan), è una delle più attive, e sfrutta le debolezze del paese per compiere attentati.

L’ultimo, devastante, a Kabul ha ucciso oltre sessante persone a fine agosto ed è stato rivendicato dal Califfato e compiuto da un attentatore pakistano, dimostrazione che c’è una certa osmosi jihadista regionale che si pone come alternativa a Talebani, governo afghano, al Qaeda e Occidente.

Domani ricorre l’anniversario del più grosso attentato della storia del terrorismo islamico, l’attacco qaedista alle Torri Gemelle di New York nel 2011. Si portò dietro l’invasione americana dell’Afghanistan, con la richiesta di applicazione dell’articolo 5 del trattato Nato, perché i talebani che governavano il Paese con la sharia si rifiutavano di togliere la protezione logistica e politica al gruppo di Osama bin Laden, i cui nuovi leader con ogni probabilità sono ancora asserragliati tra le montagne delle aree rurali al confine pakistano – zone continuamente martellate dai droni americani.

Ora, secondo l’accordo in trattativa, dovrebbero essere i talebani a occuparsi parzialmente del contenimento qaedista e pure del contrasto dell’Isk – che attualmente è una delle filiali baghadiste più pericolose, come risulta anche da un report degli analisti delle Nazioni Unite che hanno individuato i collegamenti tra la provincia afghana e i comandi centrali ancora attivi tra Iraq e Siria.

 

 

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