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“La decisione degli Stati Uniti di ritenere il regime di Assad responsabile di ogni ulteriore uso di armi chimiche è incrollabile, e ricordiamo al regime e ai suoi alleati che qualsiasi uso di armi chimiche, incluso il cloro, andrà incontro a una forte e rapida risposta”, è questo il cuore del discorso con cui Jonathan Cohen, ambasciatore americano facente funzione di rappresentante permanente all’Onu ha ammonito il governo siriano durante una riunione del Consiglio di Sicurezza di quattro giorni fa.

IL SOSPETTO

Washington sospetta che il regime di Bashar al Assad abbia usato armi di nuovo chimiche, probabilmente barili bomba al cloro sganciati da elicotteri in modo indiscriminato (ma forse anche armamenti più sofisticati con gas nervino di tipo sarin), quando domenica scorsa i lealisti hanno martellato Idlib, nel nord ovest del Paese, dove Damasco e i suoi alleati (Russia e Iran) hanno chiuso i ribelli in un’enclave che somiglia più a un riserva di caccia. C’è già un’indagine aperta per cercare di far luce su quanto accaduto, ma è complicata anche dai soliti set di disinformazione che escono dalla Siria (gli Stati Uniti hanno ufficialmente respinto una ricostruzione diffusa dal regime secondo cui alcuni ribelli militanti catturati dalle forze assadiste avrebbero ammesso di pianificare attacchi chimici per poi incolpare Damasco e suscitare la reazione Usa).

RISPOSTA RAPIDA

Ieri il dipartimento di Stato ha incalzato che se la Siria riprenderà l’uso di armi chimiche, gli Stati Uniti e “gli alleati […] risponderanno in modo rapido e appropriato”. Cosa che è già successa sotto l’amministrazione Trump, che per due volte ha punito gli attacchi chimici di Damasco più che altro con un senso simbolico. Specificazione importante da parte di Foggy Bottom: ci sarà risposta militare anche se a essere usato sarà “solo il cloro”, che rischia di tornare a essere il protagonista di questa campagna lenta e sanguinosa avviata da metà aprile da siriani e alleati per riprendere Idlib, ossia riportare sotto Assad tutto il paese. L’attacco al cloro in questione, secondo la portavoce del dipartimento, Morgan Ortagus, è “parte di una violenta campagna del regime di Assad che viola un cessate il fuoco che ha protetto diversi milioni di civili nell’area attorno a Idlib” (ci sono stati già oltre duecento morti civili, ma il numero se salirà l’intensità dei combattimenti è destinato a crescere).

IL CLORO IN SIRIA

Il cloro viene messo in contenitori collegati alle barrel bomb, barili ripieni di esplosivo e riempiti di rottami di ferro che vengono sganciati dagli elicotteri di Assad su aree anche abitate. Producono danni devastanti, ma sono più simili a un ordigno artigianale che a un armamento regolare e colpiscono indiscriminatamente; arricchiti al cloro provocano problematiche respiratorie. Tecnicamente il cloro non è un componente militare, perché ha anche scopi civili, e per questo non è stato bandito dal paese quando il regime accettò di eliminare il suo arsenale di veleni per evitarsi i bombardamenti americani e francesi dopo il devastante attacco al nervino di Goutha, dove morirono centinaia di persone. Quell’accordo per l’abolizione dell’arsenale chimico siriano fu mediato dalla Russia con gli Stati Uniti, era il 2013, e Mosca ancora era protettore solo diplomatico di Damasco; due anni dopo, i soldati russi entrarono in guerra formalmente per sostenere il regime. Nota: l’accordo non è mai stato rispettato completamente, tant’è che in almeno altre due occasioni Assad usò il sarin.

LA POSIZIONE AMBIGUA DI TRUMP

Sebbene parti dell’amministrazione Trump abbiano alzato la voce contro il regime di Assad, adesso come in precedenza, la Siria è un altro di quei dossier su cui la Casa Bianca ha una posizione ambigua. Il presidente mesi fa ha annunciato la volontà di ritirare tutti i militari statunitensi che si trovano nel paese per combattere lo Stato islamico, che è stato sconfitto nella sua dimensione statuale. Parrebbe che la loro missione sia conclusa – anche se l’Is persiste come forza strisciante e pronta a riprendere terreno (vedere il caso libico, per esempio) – però la funzione di quei militari in realtà è duplice, perché mentre combattono i terroristi come parte di un altro piano del conflitto siriano, i soldati americani svolgono anche una funzione di deterrenza che teoricamente dovrebbe evitare il ripetersi di azioni scellerate siriane, sponsorizzate dai partner esterni del regime da Teheran e coperte obtorto collo da Mosca.

LA GUERRA PROXY CON L’IRAN

Si scrive “teoricamente” perché non è mai stato effettivamente così: siriani e iraniani e russi hanno portato avanti la propria agenda senza troppi pensieri, ed è presumibile che lo facciano ancora meglio davanti alle titubanze di Trump. Però in questo momento il campo siriano diventa anche un territorio di ingaggio e confronto tra Stati Uniti e Iran, che in questi giorni sono impegnati in un delicato confronto in Medio Oriente dove gli americani temono che Teheran lanci contro gli interessi statunitensi le proprie forze proxy, alcune delle quali sono in Siria. Ieri all’uscita di una riunione con i congressisti, il capo del Pentagono e il segretario di Stato hanno annunciato che con la Repubblica islamica non si tratta di fare la guerra ma attività di deterrenza: anche le minacce ad Assad sono qualcosa del genere (complicate anche dal fatto che a Idlib si rifugiano diversi militanti qaedisti: circostanza per cui un’eventuale azione di rappresaglia americana potrebbe essere descritta dai diversi livelli della propaganda pro-regime, interno ed esterno, come un aiuto ai terroristi). Gli americani non intendono fare una complessa guerra contro Damasco – che coinvolgerebbe russi e iraniani – ma vogliono creare il terreno perché Assad non compia azioni sanguinose, ed eventualmente colpirlo puntualmente. Minaccia che passa da Damasco per entrare anche nelle cancellerie di Teheran.

La Siria è tornata alle armi chimiche? Gli Usa minacciano (ma non troppo)

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