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Erano le 11,36 del 14 agosto 2018, quando sotto una pioggia incessante 250 metri di ponte Morandi, il viadotto autostradale che collega la A7 con la A10, crolla insieme alla pila di sostegno, la numero 9. Le vittime saranno 43. Oltre al blocco della viabilità urbana, ferroviaria e autostradale, il disastro obbligò 566 residenti nelle case presenti sotto la pila 10, ad abbandonare la propria casa per motivi di sicurezza. Ad un anno esatto dal crollo del Ponte Morandi qualche riflessione sul rapporto tra le infrastrutture e lo sviluppo di un territorio va fatta. Dopo la tragedia di Genova dissi pubblicamente che bisognava evitare di attivare un pericoloso dualismo tra la necessità di manutenere le opere esistenti, e l’indubbia urgenza di nuove infrastrutture. Il no alla Gronda e l’inadeguata infrastruttura ferroviaria a completamento del III Valico, infatti, avevano inevitabilmente contribuito a creare una tragedia dalle ripercussioni economiche significative.

L’inaugurazione del Ponte Morandi era la sintesi di un Paese che sperimentava e innovava. Negli ultimi decenni, invece, l’Italia ha realizzato solo il 13% di nuove infrastrutture, e in prevalenza sono state le nuove arterie ferroviarie a modificare la mobilità nel nostro Paese, ridisegnando anche l’urbanizzazione tra le grandi città e i cluster di sviluppo economico lungo la direttrice Salerno-Napoli-Roma-Bologna-Milano, grazie all’ intuizione di Lorenzo Necci, grande manager di Stato che il Paese ha voluto dimenticare troppo presto.

Dopo Tangentopoli l’opposizione costante alle infrastrutture è diventata la cifra del Paese, come testimoniano i casi eclatanti della Tap, della Tav e della stessa Gronda. Le infrastrutture non sono più percepite come metafora dello sviluppo, ma al contrario vengono osteggiate perché costituirebbero il presupposto della corruzione. L’Italia del boom era identificata con le sperimentazioni architettoniche, che avevano la capacità di osare e di far sognare, come testimoniano gli straordinari manufatti della Bologna-Firenze, un’infrastruttura simbolica dell’Italia di allora che sfidava il futuro. Quei ponti, per la bellezza, l’ingegno e la tecnologia, dovrebbero essere catalogati come patrimonio Unesco.

In Italia esistono 1,5 milioni di ponti, il 2% dei quali è costantemente monitorato e controllato. Gli altri costituiscono una grande incognita e in prevalenza si trovano su tratti stradali gestiti da enti che non dispongono di risorse e personale, come avviene del resto anche con il Ministero delle Infrastrutture. Sui 7.000 ispettori del Ministero che dovrebbero operare a pieno regime per verificare che vengano svolti i controlli, solo 150 sono quelli effettivi. La tragedia di Genova sia, quindi, il monito per superare gli ostracismi beceri e ottusi che hanno bloccato il Paese dopo Tangentopoli. Il si alla Tav, da questo punto di vista, potrebbe rappresentare la svolta culturale che il Paese si attende per rimettere in esercizio investimenti e produrre crescita e sviluppo.

Per tornare a investire nelle infrastrutture occorre, però, rafforzare i ruoli tecnici nelle pubbliche amministrazioni, che devono tornare ad avere nelle strutture tecniche allargate dei veri e propri centri di competenza capaci di fare programmazione e monitoraggio e controllo, dove possano finalmente lavorare insieme non solo ingegneri e architetti, ma tutte quelle competenze che concorrono alla realizzazione e alla comunicazione dei progetti innovativi, si pensi alle infrastrutture digitali.

Gli esempi positivi anche nella Pa italiana non mancano, come insegnano i casi di Rfi, Italferr, Anas, i cui bandi prevedono delle premialità per chi progetta in Bim, un plus che dopo il 2025 sarà considerato ordinario, impattando di fatto sulla capacità organizzativa delle strutture tecniche di progetto.

Il pericolo, infatti, è che senza un’adeguata riforma della Pa, interventi normativi in itinere (come quello sulle pensioni) stanno svuotando gli enti locali delle poche competenze rimaste soprattutto nelle aree tecniche. Si stanno creando, quindi, delle amministrazioni di serie A, efficienti, e altre di serie B, che non dispongono di competenze tecniche, e che non sono pertanto più in grado di investire nemmeno sulle manutenzioni delle opere già realizzate, come sta già accadendo in molti comuni di dimensioni medie e nelle stesse province, chiamate a gestire un settore nevralgico come la viabilità senza praticamente avere a disposizione risorse economiche.

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