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Divide. Indigna. Offende. Rivolta le budella. E insieme, fa sorridere. O ridere a crepapelle. Commuove e intristisce, come quella di Makkox. Dissacra, come quella di Osho. Accende una lampadina in testa. Ruba il lavoro ai giornalisti, o forse solo ai titolisti. Squarcia veli. Vilipendia gli idoli. Bestemmia.

La satira è tutto questo, e tutto questo ancora non basta a definirla. I latini ne rivendicavano l’“invenzione” (“Satura quidem tota nostra est”, “La satira è certamente tutta nostra” scriveva Quintiliano), ispirati nella definizione da una metafora culinaria (“satura lanx”, piatto misto, colmo di prodotti vari e gustosi). Un guazzabuglio, insomma. Roba da giullari, gli unici che potevano deridere il re. O peggio ancora, da “umiliazione dei Santi”, sì perché nel Medioevo, in alcune giornate, era lecito accanirsi contro le reliquie per sfogare la rabbia per le grazie non ricevute o costringere il Santo a intercedere con maggiore convinzione.

In anni recenti, sono ben due le sentenze della Corte di Cassazione pronunciate per mettere ordine a dubbi, disorientamenti, mal di pancia e bile prodotta in abbondanza.

Con la sentenza n. 9246 del 2006 La Suprema Corte descrive la satira come “quella manifestazione del pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si è addossata il compito di “castigare ridendo mores”; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene”.

La risata, dunque, è elemento irrinunciabile, il salvacondotto che consente di fustigare le “mores”, vizi e dubbi costumi dei contemporanei.

Ma la sentenza n. 5499 del 2014, aggiunge qualcosa in più, convalidando la “legittimità costituzionale” della satira, i cui strali, si specifica, possono essere diretti contro i poteri di qualunque natura: “La satira è configurabile come diritto soggettivo di rilevanza costituzionale […] Il diritto di satira ha un fondamento complesso individuabile nella sua natura di creazione dello spirito, nella sua dimensione relazionale, ossia di messaggio sociale, nella sua funzione di controllo esercitato con l’ironia e il sarcasmo nei confronti dei poteri di qualunque natura”.

Basta il mezzo, dunque, a giustificare il fine? Come notò Karl Popper in un suo paradosso, “la tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza.” Una riflessione certamente di buon senso, moderata, condivisibile, che però non avrebbe permesso a Dante Alighieri, nell’Inferno, di riservare il più irridente trattamento ai Simoniaci. Papa Niccolo’ III è rappresentato con il viso immerso nello sterco e il sedere all’aria. E Maometto? Altro che Charlie Hebdo, Dante lo raffiguro’ aperto in due da un taglio verticale lungo tutto il corpo, con le interiora a penzoloni, a spruzzare sangue e nutrirsi tramite “il tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia“.

Ma attenzione perché la satira può anche uccidere. Non solo in senso metaforico. Nella giornata del 7 gennaio 2015 la redazione del settimanale satirico Charlie Hebdo fu assaltata da un commando armato di kalashnikov. Durante l’irruzione vennero assassinate dodici persone. Nel numero uscito proprio il quel mercoledì mattina c’era un’ultima vignetta che è apparsa una premonizione. Sotto al titolo “Ancora nessun attentato in Francia” viene raffigurato un terrorista islamico: «Aspettate! Abbiamo tempo fino alla fine di gennaio per fare gli auguri». Roba neanche troppo forte in paese in cui la legge non prevede neppure il reato di blasfemia o di oltraggio alla religione.

Chi ha ragione, allora, quando si parla di satira? Proprio in questi giorni il teatro Manzoni di Milano ha messo in scena “Il caso Charlie Hebdo, oltre la satira o libertà di satira” ultimo appuntamento del format teatrale “Personaggi e Protagonisti: incontri con la Storia, Colpevole o Innocente”, ideato e curato da Elisa Greco. Ebbene, posso raccontarvi questo: il giudizio popolare ha dato ragione alla libertà di espressione satirica. Ma di poco. Lo scarto di voti, come è stato sottolineato dal palco, era scarso. E il dibattito, ancora una volta, resta aperto.

Vauro

Da Charlie a Vauro, quando la satira fa ridere, intristisce o uccide

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