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Ieri il ministro delle Finanze russo ci ha tenuto a sottolineare personalmente che sull’accordo sul debito col Venezuela niente è cambiato — ossia, niente da quando il presidente dell’Assemblea parlamentare, Juan Guaidó, s’è autoproclamato capo dello stato e sta raccogliendo le forze per deporre il regime di Nicolas Maduro. Ci sono scadenze da rimborsare, e i prossimi 100 milioni di dollari Caracas deve restituirli a Mosca a fine marzo: il Venezuela “deve adempiere agli obblighi che ha assunto”, ha detto il ministro russo.

La dichiarazione è secca, interessante se inserita nel quadro di allineamenti (anche emotivo) che avvolge la crisi di quella che potrebbe essere la più ricca nazione sudamericana, ridotta letteralmente alla fame dal regime. Se da un lato gli Stati Uniti hanno immediatamente riconosciuto l’autoproclamazione di Guaidó (che come presidente del parlamento è la più alta carica regolarmente eletta, visto che le presidenziali che hanno fatto rivincere Maduro non sono riconosciute da molti attori della Comunità internazionale), dall’altra sta la Russia. La dichiarazione sul debito è arrivare poche ore dopo del commento del vice ministro delle Finanze sulle nuove sanzioni imposte dagli americani alla compagna petrolifera statale venezuelana (Pdvsa).

Per Mosca sono “illegali” e il vice ministro spiegava tra i risvolti negativi i contraccolpi sullo stato e dunque sui cittadini. Tra questi, appunto: il Venezuela non avrebbe avuto proventi per ripagare i debiti sottoscritti con altri stati — e Mosca ha sentito il dovere di specificare: comprendiamo la situazione, stiamo dalla parte di Maduro, ma dovete ripagarci i prestiti comunque.

Secondo il regime le sanzioni sulla Pdvsa lasceranno agli americani “le mani sporche di sangue”. Maduro è melodrammatico sempre quando deve descrivere carestie prodotte sul paese da nemici esterni e giustificare i danni prodotti quotidianamente dal suo regime, ma in questo caso fa riferimento al fatto che se lo stato dovesse avere ancora meno soldi, allora il popolo, ancora più affamato, potrebbe avviare la guerra civile. E non è impossibile. In realtà il piano americano tiene conto proprio di questo: la Petróleos de Venezuela SA per vendere petrolio deve raffinare negli Stati Uniti, tramite la controllata Citgo, e per questi due giorni fa il dipartimento del Tesoro ha congelato tutto l’asset. L’idea, all’opposto di quel che dice Maduro, è proprio girare i proventi tramite le filiali della Fed a conti che Guaidó può gestire e con i quali poter far ripartire il paese e governare. Contemporaneamente questo dovrebbe far rimanere a secco il regime, da Maduro a tutti i papaveri che sono stati tenuti insieme dal dittatore attraverso la condivisione dei soldi del petrolio.

Tra questi i militari. I generali stanno con Maduro e più passa il tempo e più diventa improbabile che decidano di mollarlo, a meno di colpi di scena in sovrapposizione al logorio sfiancante della strategia americana. Intanto, i russi — secondo informazioni diffuse dalla Reuters — hanno già inviato contractor militari nel paese, e questi potrebbero avere anche lo scopo di rassicurare i quadri dell’esercito sulla protezione internazionale.

Sul piano militare c’è anche una guerra di nervi e messaggi indiretti. L’altro ieri, durante il briefing stampa con cui gli Stati Uniti hanno annunciato l’avvio del regime sanzionatorio contro Pdvsa, uno dei due alti elementi dell’amministrazione Usa, il consigliere alla Sicurezza nazionale (l’alto era il segretario al Tesoro), mentre ascoltava le domande dei giornalisti aveva in mano un blocco per gli appunti giallo che a un certo punto ha inavvertitamente – o almeno così pare – girato, mostrando a cameraman e fotografi due righe scritte su a penna. Gli zoom degli obiettivi hanno colto due annotazioni: “Afghanistan —> welcome the talks” riga uno e “5,000 troops to Colombia” riga due.

Se la prima era un promemoria per salutare come di buon auspicio il raggiungimento del quadro per un accordo di pace tra Talebani e americani in Afghanistan, la seconda cos’era? Un messaggio, forse; e allora quel blocco è stato esposto alle telecamere non certamente per sbadataggine. Poco dopo Kevin Liptak della Cnn ha chiesto pubblicamente durante la press conference della Casa Bianca a uno dei portavoce cosa significasse quell’appunto, e questo ha risposto: “Come ha detto il Presidente, tutte le opzioni sono sul tavolo”.

Risposta simile l’ha ottenuta da altre fonti l’Associated Press, ed è stata data dallo stesso consigliere Bolton durante il briefing (nel quale ha aggiunto che “violenze” contro gli americani, il personale diplomatico statunitense, l’Assemblea nazionale e il suo presidente attualmente capo di stato ad interim o Guaidó, sarebbero una “violazione dello stato di diritto” che si porterebbe dietro una “significativa risposta”). Un pattern che sembra confermare qualcosa.

Il consigliere si riferiva a truppe americane che potrebbero essere inviate in Colombia ready-to-go per il cambio di regime venezuelano? È noto che il presidente Donald Trump stia valutando anche l’ipotesi militare per rovesciare la dittatura Maduro che ha affamato il Venezuela, sebbene sia considerata un’opzione ancora distante alla quale arrivare dopo pressioni politico-diplomatiche ed economiche. Per esempio, domenica scorsa il sentore Lindsey Graham ha detto apertamente ad Axios che Trump gli aveva ventilato l’idea di usare “la forza militare” non più tardi di due settimane fa.

Una fonte che conosce il Venezuela e che per tale ragione in questo momento preferisce l’anonimato, ci fa notare un dettaglio dietro all’appunto di Bolton: la Colombia. Il paese, che condivide il confine orientale col Venezuela, lo scorso anno è diventato “partner globale” della Nato suscitando la reazione indignata di Caracas.

L’allineamento Nato è un particolare di valore non secondario. L’attuale Colombia è in ottime relazioni con la presidenza Trump, mentre è avversaria del Venezuela; situazione condivisa con il Brasile, la principale potenza regionale, retta da un presidente molto trumpiano. Il messaggio veicolato da Bolton gira sul piano internazionale: se Brasilia e Bogotà si sono subito mosse con Washington sostenendo Guaidó, insieme a diversi altri paesi del blocco occidentale (su cui fa eccezione, forse, solo l’Italia), con Maduro si sono posizionati Bolivia, Cuba, ma soprattutto Cina, Iran, Siria, Turchia e come detto la Russia — che però, come ha spiegato il ministro delle Finanze, sul dossier non sembra aver intenzione di perderci sonno e interessi.

Dovessero precipitare le cose e una mossa militare si rendesse necessaria e visti gli schieramenti, muoversi in ambito Onu sarebbe complicato per gli Stati Uniti – dato che Cina e Russia fanno parte del Consiglio di Sicurezza e difficilmente autorizzerebbero un’azione contro un loro protetto. Intanto siamo solo alla fase della pressione politica ed economica. Funzionari del Pentagono sentiti anonimamente dal Washington Post hanno detto che non hanno mai ricevuto un ordine che avesse qualcosa a che fare con la Colombia. Ma nessuno ha chiaro come procederanno le cose.

 

maduro

Pressioni economiche e messaggi militari. Gli Usa sono su Maduro

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