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[Questa è la seconda parte di un’intervista all’analista di politica economica Lorenzo Carrieri, che per Formiche.net ha fatto un quadro sulla big picture dello scontro commerciale tra Stati Uniti e Cina. Qui la prima parte].

La presidenza Trump è stata criticata per avere una visione “mercantilista” e autarchica, perché sembra non voler comprendere concetti base quali quello di catena di valore e di economia di scala. Secondo questa visione, i dazi sono uno strumento per ridurre il trade deficit verso la Cina — che ha risposto alle mosse americane alzando dei contro-dazi — e ristabilire una sorta di equilibrio nella bilancia commerciale. Ma può funzionare?

“Il problema è che in un’economia aperta e globalizzata, altre variabili macroeconomiche entrano in gioco per determinare l’avanzo e/o il disavanzo nella bilancia commerciale: il tasso di risparmio, il tasso d’investimento, le politiche monetarie e fiscali, il tasso di cambio, le aspettative inflattive, la competitività e la produttività dei fattori, i cicli economici, solo per citarne alcune”, dice Carrieri.

LO SBILANCIO COMMERCIALE

“Nel caso particolare degli Stati Uniti – prosegue l’analista italiano – i disavanzi nella bilancia commerciale e quello delle partite correnti, il cosiddetto twin deficitsono il risultato di spese federali altissime e soprattutto di un risparmio insufficiente, principalmente da parte del governo: dall’amministrazione Reagan in avanti, gli Stati Uniti generano rapporti deficit/PIL molto alti; per dare un’idea, nell’era Obama, la media è stata del 7.5 per cento.

Negli Stati Uniti per giustificare il disavanzo fiscale viene incolpata la Cina e la svalutazione dello yuan, la chiamano “beggar thy neighbor policy”: è così? 

“La manipolazione del tasso di cambio da parte cinese, tramite cui la Cina esporta deflazione nel globo, è sicuramente uno strumento importante per Pechino. Ma rimane uno specchietto per le allodole: postulare che l’apprezzamento del tasso di cambio riduca il surplus commerciale di un paese ha pochi riscontri empirici, poiché nelle economie aperte, gli investimenti diretti scontano l’apprezzamento del tasso di cambio nel lungo termine.

ABBOCCAMENTI CINESI

Però è un argomento anche da Pechino, giusto?

“Da parte cinese mi pare che continuino gli abboccamenti. Se da un lato risponde colpo su colpo (subito dopo l’escalation di Trump la Popular bank of China (PboC) ha tagliato il coefficiente di riserva obbligatoria, ndr), dall’altra Pechino sa che necessita di un accordo con gli States. La Cina è in piena fase di transizione da un’economia export-driven ad una basata sul consumo e sui servizi, ed è lontana dalle società a capitalismo maturo dell’Occidente”.

Il mercato americano è troppo importante per Pechino, spiega Carrieri, perché la maggiore parte del surplus commerciale è verso gli Stati Uniti e si aggira intorno ai 260 miliardi di dollari. “Molti commentatori hanno parlato troppo in fretta di  una Cina lanciata verso una fantomatica de-dollarizzazione, sia attraverso una vendita dei titoli del Tesoro americano sia switchando le sue riserve verso l’oro e/o riducendo le posizioni in dollari”.

Nei giorni dopo i nuovi dazi, i rendimenti dei titoli del tesoro americano sono calati e il dollaro si è rafforzato, mentre lo Yuan, che la Cina vorrebbe vedere trasformarsi da valuta di scambio globale a valuta di riserva riconosciuta internazionalmente (ora è solo al 2 per cento delle riserve), si è deprezzato, portandosi dietro la maggiore parte delle valute dei paesi emergenti.

I PROBLEMI DI PECHINO

La bassa percezione dello yuan come deposito di valore è una delle criticità principali che soffre la Cina, così come la titubanza nella liberalizzazione dei movimenti di capitali, la mancanza di mercati finanziari aperti e ben sviluppati.

Gli investimenti esteri sono un problema, perché continuano ad essere limitati: se infatti quelli diretti (FDI) rappresentano uno strumento importante per il trasferimento di tecnologia, negli investimenti esteri di portafoglio (FPI) gli stranieri detengono solo l’8 per cento del debito pubblico cinese e sono sottoposti a limitazioni importanti nella convertibilità dello yuan e nelle transazioni in valuta estera. A peggiorare le cose, alti tassi di fuga di capitali (meno 700 mld) da inizio 2015 fino alla fine del 2016 a seguito di episodi di stress finanziario hanno costretto la PboC a erodere lo stock di riserve valutarie estere di quasi il 20 per cento, per sostenere il cambio semi-ancorato al dollaro e a svalutare lo yuan del 12. Questo episodio ha dimostrato come lo yuan non sia ancora visto come una moneta buona, per dirla à la Gresham, da detenere come riserva di valore”.

Poi ci sono altre criticità importanti a vari livelli: “Per esempio il sistema bancario ombra di dimensioni gigantesche (che muove 10mila miliardi di dollari) che offre attività di prestito fuori bilancio da parte di istituti finanziari bancari e non bancari, a cui si collega un alto debito corporate e bolle immobiliari in zone industriali e in via di urbanizzazione, l’allocazione di enormi risorse verso imprese parastatali zombie e poco produttive, l’uso politico di misure fiscali e monetarie per manipolare il tasso di cambio e/o offrire via d’uscita facili da situazioni di stress finanziario”.

L’ACCORDO

Questa situazione in gergo tecnico viene definita “trappola del reddito medio”, da cui Pechino vorrebbe uscire tramite una crescita più lenta ma più sostenibile, anche tramite un accordo con il suo più grande partner commerciale. Ma come?

“Credo che la vera sfida, nel medio-lungo periodo, sarà ridurre il surplus commerciale e delle partite correnti (la combinazione del suo surplus commerciale e del suo reddito netto da investimenti esteri, attraverso una riduzione del suo tasso di risparmio). Questo a sua volta aumenterebbe il consumo interno e dunque il tenore di vita del cinese medio, aumentando la spesa per investimenti”.

Uno yuan più forte favorirà le importazioni di materie prime e merci straniere, una maggiore produttività nel settore dei beni commerciabili farà convergere nel lungo termine salari e prezzi verso gli standard internazionali, un sistema bancario trasparente e sano sosterrà la crescita, e la fine dei controlli sui movimenti di capitale favorirà una migliore allocazione delle risorse e attrarrà più investimenti stranieri.

“Gli americani sono desiderosi che la Cina riduca il suo surplus e consenta alla sua valuta di apprezzarsi più rapidamente. I negoziatori di Trump sanno che la Cina è troppo importante per la catena del valore dei prodotti americani. Dal canto loro, i governanti cinesi vogliono elevare lo standard di vita dei suoi abitanti e far convergere l’economia di Pechino verso quelle dei paesi sviluppati. Per uscire da questa impasse, però, i due contendenti debbono smetterla di pensare il commercio internazionale come un gioco a somma zero e abbandonare velleità protezionistiche e nazionalismi economici. Il muro contro muro non aiuta e lo scenario protezionistico potrebbe far declinare la crescita globale dello 0,8 per cento nel 2019 e dell’1,4 nel 2020, secondo le previsioni dell’OECD.

Gli Usa e la Cina hanno bisogno l'uno dell'altra. Spiega Carrieri

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