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La proposta di legge leghista sulle quote obbligatorie di musica italiana nelle radio – non se ne farà nulla, siamo pronti a scommettere – appare più un’altra tappa, nella narrazione sovranista così tanto di moda, che una misura realmente sensata. È (sarebbe) un classico provvedimento protezionistico, teoricamente teso a garantire e sviluppare spazi di espressione nazionale, ma destinato a creare sacche di inefficienza e concorrenza sleale. Si pensi a quanto accaduto con il cinema e ai denari pubblici, finiti anche ad opere dal dubbio valore artistico e ancor più indefinito “interesse nazionale”. Perché il protezionismo deprime la qualità e premia i mediocri. Da sempre.

Costringere le emittenti commerciali italiane a stravolgere i propri palinsesti, senza alcuna considerazione delle specificità e della storia di ciascuna, appare un’ingerenza editoriale gravissima e anche un danno economico di portata potenzialmente devastante. Ci sono radio che basano il proprio successo, l’affiliazione del proprio pubblico e quindi gli introiti pubblicitari su una precisa identità musicale, magari lontana dalla tradizione italiana. Sono equilibri delicati, raggiunti grazie a scelte editoriali libere e mirate. Piegare tutto questo a un’imposizione normativa calata dall’alto, grigia e piatta, rischierebbe di mandare a pallino il lavoro di anni.

In un sistema radiotelevisivo, in cui le regole del libero mercato valgono per tutti, ma un po’ meno per la Rai, sostenuta anche dai tanti soldi del canone e quindi degli italiani, un’ingerenza del genere prefigurerebbe una vera concorrenza sleale. Le radio commerciali, frutto degli investimenti di gruppi e imprenditori privati e del lavoro di centinaia di professionisti, hanno imposto la loro qualità e il loro successo alla radio di Stato, ormai costretta da anni a un infruttuoso inseguimento. Mettere in difficoltà chi ha avuto l’unico demerito di lavorare meglio e rispondere con puntualità ai gusti degli italiani, farebbe certamente felice la Rai, molto meno il pubblico. Per paradosso, solo alla radio di Stato avrebbe senso chiedere un occhio di riguardo per la produzione italiana, se volessimo parlare ancora di servizio pubblico.

Ne scrivevamo ieri, su queste pagine: c’è in giro una rinnovata voglia di Stato in economia, di cui nessuno avvertiva la necessità. Il legislatore farebbe bene a trattenersi dal favorire l’ingerenza pubblica, in un settore che funziona, grazie alla forza dell’iniziativa privata. Piuttosto, potrebbe dare applicazione (finalmente!) alle leggi esistenti, sul Dab e l’assegnazione delle frequenze, permettendo alla radio italiana di crescere ulteriormente, come ha dimostrato di meritare basandosi solo sulle proprie forze.

Si guadagnerebbe qualche titolo in meno, ma si farebbe il proprio lavoro.

sanremo

Quote per la musica italiana in radio? Il protezionismo deprime la qualità e premia i mediocri

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