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Nel decennale della scomparsa di Giano Accame (1928-2009), intellettuale raffinato e profondo, di “parte”, ma non fazioso, Oaks editrice, diretta da Luca Gallesi, ha ripubblicato la sua magnifica Storia della Repubblica (pp. 439, € 25,00), nella quale il racconto, dalla fine della monarchia agli anni Novanta, è una esemplare rivisitazione ed interpretazione di un’epoca caratterizzata da luci e da ombre, segnata anche da grandi aspettative suscitate da una politica che il più delle volte, con le sue contorsioni all’apparenza indecifrabili, sembrava banale ed opportunistica, invece aveva, pur con tutti i limiti che qualcuno ancora ricorda, la forza di appassionare masse considerevoli di cittadini passioni alla vita pubblica, ed i partiti, per quanto spesso inadeguati, svolgevano un ruolo che oggi francamente rimpiangiamo.

COP. ACCAME def.

Accame era un intellettuale scomodo, un “eretico” che da destra sapeva guardare a sinistra dove era molto apprezzato; non si cullava nelle certezza di una appartenenza definita, ma inquieto s’immergeva nella ricerca di nuovi orizzonti. Veniva dal “mondo dei vinti”, ma non lo cavalcava. Piuttosto esplorava le possibilità di rinnovamento della Repubblica nel segno della stabilità e fu così che incontrò il combattente antifascista Randolfo Pacciardi con il quale intrecciò un proficuo e profondo lavoro di elaborazione in vista della Nuova Repubblica fondata sul presidenzialismo.

Non lo lasciò indifferente il “socialismo tricolore” di Bettino Craxi, cui dedicò un volume prezioso ancora oggi al fine di decifrare non un’utopia, ma una prospettiva d’avanguardia purtroppo naufragata per troppe interessate incomprensioni. Immaginò una “destra sociale” che gli attirò l’attenzione di una sinistra colta e non con i paraocchi, ma fu proprio quella “sua” parte politica, cui offrì l’occasione di smarcarsi da sterili ritualismi e irragionevole idiosincrasie ideologiche, che non capì fino in fondo, tranne una minoranza, l’importanza di un dialogo teso a rifondare la Repubblica oltre gli steccati partitocratici che pur censurava, ma nello stesso tempo, riconosceva , come scrive Mario Bozzi Sentieri nella prefazione alla nuova edizione della Storia della Repubblica, l’importanza dei dei partiti politici nell’animare il “fervore comunitario” negli anni della ricostruzione.

Il che non gli impediva di denunciare le contraddizioni del sistema che favorirono lo scollamento comunitario che poi esplose in tutta la sua virulenza agli inizi degli anni Novanta con Tangentopoli. Il vasto sistema di corruzione, come emerge dal libro, secondo Accame era dovuto a questioni di carattere strutturali (la crisi del sistema istituzionale) e di precarietà sociale (le riforme sempre rimandate). Una combinazione esplosiva che avrebbe portato al naufragio della Repubblica stessa, nonostante le speranze accese agli inizi dell’ultimo decennio del secolo scorso.

Fu un “irregolare” Accame. E questo suo libro contribuisce a ricordare un percorso politico che, per quanto segnato da ombre che si sono allungate fino a noi, era definito da concezioni politiche in grado di dare un senso al protagonismo partitico, tanto di opposizione quanto di governo. Senza dimenticare che la decadenza avanzava inesorabilmente senza che nessuno provasse a metterci riparo, tranne forse Craxi che pagò assai caro il suo lungimirante disegno di rinnovamento.

La stringente attualità del “continuismo” della crisi sistemica individuata da Accame, infatti, è data dai nodi irrisolti tra la spaccatura tra Nord e Sud, dal regionalismo onnivoro, dall’eccessiva pressione fiscale, dal dilatarsi del debito pubblico per via di spese improduttive e clientelari, dall’abnorme dilatazione della spesa previdenziale, dalle incongruenze del sistema giudiziario, dall’insorgenza della criminalità comune condizionante scelte amministrative e politiche, dalla soffocante burocrazia, dall’ “indecisionismo” costituzionalmente accertato di fronte al quale le varie Bicameriali per le riforme si sono dimostrate impotenti.

Ecco dove nasce l’antipolitica e le sue conseguenze. Accame scriveva: “Nel generale tramonto delle passioni politiche le prossime scelte più che a consensi sembrano doversi affidare al contenimento o alla crescita di opposti astensionismi. Il passaggio dall’idea di valore da significati eroici, militari o nella lotta di classe, a più prosaiche valutazioni in denaro ha ridotto nel corso di mezzo secolo le elezioni a gara, peraltro sempre più costosa, tra chi delude di meno o suscita minor tedio”.
Quando se ne andò, dieci anni fa, rimasi sorpreso e sconcertato, oltre che addolorato. Non mi aveva fatto sapere niente della sua malattia. Accame era un uomo “antico” che manifestava con parsimonia i suoi sentimenti, la delicatezza del suo animo, le intime gioie come le sofferenze più acute.

E soprattutto era votato ad una impersonalità attiva che lo portava a privilegiare la diffusione delle idee, la conoscenza, una certa visione del mondo e della vita piuttosto che la rappresentazione di se stesso. Perciò con coerenza non cercava il proscenio, ma i sentieri impervi che lo portavano di frequente in uno spazio ideale e culturale che ha dovuto faticare non poco per far uscire dall’ombra.
In oltre sessant’anni di attività intellettuale, giornalistica e politica, nonostante il suo schivo carattere (o forse proprio per esso) è riuscito a stabilire con tutti i suoi più disparati interlocutori un proficuo dialogo finalizzato al superamento delle lacerazioni proprie della modernità fino a trovare sintonie quasi irreali in un modo dominato dalle apparenze.
È stato così che s’è imposto, nonostante le diffidenze dominanti, all’ammirazione di coloro che non ha mai reputato nemici e neppure avversari, ma soltanto di opinioni dissimili dalle sue. E per questa via, certamente non agevole, forse più di altri della sua generazione ha contribuito alla legittimazione di quella “cultura di Destra” al tempo delle contrapposizioni radicali e delle feroci discriminazioni civili. Ma il cosiddetto “superamento degli steccati” per Accame non è mai stato l’alibi per annacquare le sue idee. Si metteva all’ascolto e riusciva a cogliere le contraddizioni degli interlocutori più attrezzati, ma in buona fede, volgendole a vantaggio di coloro che non avrebbero mai dovuto avere cittadinanza nell’Italia egemonizzata dall’ideologia marxista ed azionista. A dire la verità, le definizioni non piacevano molto ad Accame che aveva il dono di intendere le ragioni degli altri, di storicizzarle, di farle confluire nel grande mare di una cultura nazionale da ricomporre pena la fine della stessa idea di nazione.

C’era un’ansia pacificatrice in Accame, insomma, che non si esauriva nell’attività di giornalista, saggista, di animatore culturale, di agitatore di questioni “cruciali”, di rivisitatore di autori scomparsi dai cataloghi dei grandi editori, ma andava oltre fino ad immaginare la ricomposizione nazionale fondata su virtù patriottiche e sentimento di solidarietà.

A dieci anni dalla scomparsa di Giano Accame ritorna la sua Storia della Repubblica

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