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Al suo presenzialismo e attivismo, il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ci ha abituato da tempo, ma questa settimana, complice anche la situazione critica sul mare d’Azov fra Russia e Ucraina, gli è toccato fare gli straordinari, con conseguenze che rischiano di riflettersi sugli equilibri della regione. Come già scritto nella precedente analisi, la Turchia non ha alcun interesse che la crisi fra Kiev e Mosca si aggravi. Al contrario. Ankara è legata a doppio filo al Cremlino, con cui ha troppi giri di affari e obiettivi geopolitici in comune per sottrarsi.

Ma l’autoproclamata indipendenza della Crimea e l’annessione alla Russia non le è mai andata giù e vorrebbe evitare di vedere il Donbass seguire il suo esempio. Troppa ispirazione per i movimenti curdi, che nel nord della Siria mal tollerano la repressione che la Turchia ha messo in atto negli ultimi mesi, o peggio ancora per i curdi sul territorio nazionale, che rappresentano comunque, nonostante tutti i tentativi di fermarli, la terza forza in parlamento. C’è poi da ricordare che una Russia più forte sulla costa del Mar nero, per la Turchia rappresenta un problema che è meglio arginare finché ancora ci si riesce.

Per questo, dopo aver incontrato a inizio settimana, l’emiro del Qatar, Tamim bin Hamad al-Thani, e aver parlato al telefono tanto con Vladimir Putin, quanto con Petro Poroshenko, Erdogan è in partenza per Buenos Aires, dove vedrà in separata sede Donald Trump. Ai due contendenti, il presidente turco ha espresso tutta la sua preoccupazione per l’escalation dei giorni scorsi, facendo presente che la Turchia è pronta a mediare i contrasti per riportare la situazione nel Mare di Azov, se non alla normalità, almeno entro la soglia dell’emergenza. A Trump andrà a dire più o meno le stesse cose, aggiungendo forse, tutta la sua disapprovazione per le manovre russe nella zona. Ma questa parte, Vladimir Putin, meglio se non la sente, anche se probabilmente se lo immagina.

Perché il presidente turco da molto tempo ci ha anche abituato a vederlo giocare su tavoli diversi, spesso in contrapposizione fra di loro. E infatti questa settimana, oltre a essersi diviso fra il Qatar, la Russia, l’Ucraina e gli incontri da tenere durante il G20, Erdogan ha trovato il tempo e le energie per presiedere anche il comitato economico della Conferenza Islamica, che si teneva a Istanbul.

E nel suo speech, il presidente del Paese che rappresenta il secondo esercito della Nato, è tornato a perorare una causa sulla quale lavora da tempo: abolire il dollaro negli scambi commerciali fra Paesi islamici. “Faccio appello ai Paesi islamici perché completino le procedure per fare in modo che un sistema di commercio preferenziale diventi una realtà”.

Il capo dello Stato ne ha poi approfittato per compattare la platea ricordando le guerre in Siria, in Iraq e in Yemen, nonché la questione palestinese e sottolineando come il mondo islamico dovrebbe essere compatto e non dipendente da “coloro che hanno interesse ad alimentarne le divisioni”. Il riferimento all’Occidente, lo stesso a cui vuole chiedere aiuto per non fare degenerare la situazione nel mare di Azov, è fin troppo chiaro.

Erdogan punta alla leadership nel mondo islamico, con quell’atteggiamento divisivo che è una parte essenziale del suo agire politico. E che fino a questo momento ha provocato solo dei gran guai a tutti, a Oriente e a Occidente.

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