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Basta guardare gli schieramenti per capire da che parte dovremmo stare. Con il presidente del Parlamento Juan Guaidó ci sono gli Usa di Donald Trump, ma c’è soprattutto la quasi totalità del continente americano, cioè Canada, Brasile, Argentina, Paraguay, Cile, Perù, Colombia, Ecuador, Costa Rica, Guatemala, Honduras, mentre Messico e Uruguay propongono l’avvio di trattative tra le parti.

Sostegno esplicito arriva anche dall’altra parte del mondo con il pronunciamento ufficiale del governo australiano, mentre il Giappone chiede un rapido “ritorno alla democrazia” (che non è esattamente un complimento per Maduro). In Europa spendono parole chiare la Spagna, la Gran Bretagna, la Germania e la Francia, che (pur con sfumature diverse) chiedono libere elezioni in tempi rapidissimi, unendole alle critiche esplicite all’attuale governo venezuelano ed al sostegno sostanziale alla linea di Guaidó.

Di diverso avviso sono altri protagonisti della scena internazionale, in particolare quattro, vale a dire Cina, Russia, Turchia e Iran. Un quartetto potente e capace di giocare (pur con strategie non sempre coincidenti) su tutti i tavoli, usando con forza ogni leva disponibile ed utile alla bisogna: intelligence, forze armate, finanza, petrolio&gas, cyber war, religione.

Un quartetto però che resta volutamente alla larga da un’applicazione concreta e riscontrabile di quei principi di democrazia che noi consideriamo (giustamente) irrinunciabili, poiché elemento fondante della nostra idea di società e di organizzazione politica ed istituzionale.

Con il mondo spaccato in due sul dossier Venezuela (ma con le democrazie tutte da una parte) il nostro posto è uno solo e non può essere oggetto di discussione, perché altrimenti finiamo per collocarci in una zona “grigia” che non ci serve, non ci fa onore e non ci consente di incidere.

Certo, il governo italiano è “nuovo” sotto ogni profilo. È composto da (due) movimenti politici che si misurano per la prima volta con la difficile arte del governare (vale anche per la Lega di Salvini, perché quella di Bossi era tutta un’altre cosa) e che non hanno una posizione comune su molti dossier internazionali. In particolare è il M5S a fare maggiore fatica nel collocarsi in una posizione dichiaratamente europea ed atlantica (Salvini in verità si è già schierato contro Maduro).

Queste difficoltà non vanno irrise o banalizzate: la politica è una brutta bestia e il movimento deve provare a fare sintesi su molti fronti, operando peraltro con un gruppo dirigente tanto appassionato quanto (inevitabilmente) poco esperto. Però ci sono momenti nei quali si cresce anche, o forse soprattutto, superando prove difficili. Schierare l’Italia al fianco delle democrazie di tutto il mondo servirebbe al Paese ed anche alla credibilità del suo governo, che ne uscirebbe rafforzato e più maturo.

Conte e Moavero lo farebbero alla velocità della luce, ma non sono loro ad avere i voti. Ma se Salvini e Di Maio riescono a fare sintesi su questo punto possono essere certi del fatto che avranno tutto da guadagnarci loro per primi.

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