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Nessuno lo avrebbe mai voluto immaginare, eppure dalle possibilità si è passati rapidamente alle probabilità. Lo stop alle perforazioni in mare per la ricerca di idrocarburi, trivelle nel linguaggio comune, rischia di far male, parecchio male alle casse pubbliche (qui l’intervista di due settimane fa all’economista Alberto Clò). Piccolo riassunto. Il decreto semplificazioni all’esame del Senato porta in seno una moratoria di 18 mesi per le operazioni di upstream nei mari italiani. Tradotto, da qui a un anno e mezzo non un solo buco potrà essere scavato sui nostri fondali, fino a quando il governo non avrà redatto una strategia nazionale per la ricerca di idrocarburi in grado di regolamentare il rilascio delle concessioni.

Un vero peccato perché nei mari italiani petrolio e gas non mancano e per un Paese dipendente al 90% dall’energia estera (e con la bolletta tra le più care d’Europa), estrarre idrocarburi di proprietà sarebbe quasi un obbligo. Se possibile poi, si può fare di peggio. Un anno e mezzo è tanto per un’azienda che vive di estrazioni, che di certo non può aspettare fino al 2021 per sapere per potrà trivellare i fondali italiani o no. A tutto questo si aggiunge il fatto che fino a pochi mesi va, vale a dire a prima dell’avvento del governo gialloverde, le attività di upstream erano tutto sommato legittimate, nonostante gli scarsi cenni nella strategia energetica nazionale del 2017.

Ora però, non più. Naturale dunque che le compagnie attive nei mari italiani stiano valutando di fare causa al governo, reo a loro dire, di aver disatteso i patti cambiando repentinamemte politica energetica in materia di estrazione. Secondo alcune indiscrezioni di stampa, numerose aziende, tra cui la britannica Rockhopper, starebbero insomma studiando una specie di class action contro l’esecutivo gialloverde a suon di arbitrati internazionali, al fine di vedersi riconosciuto il diritto a perforare.

Secondo Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, c’è qualcosa di diabolico o quasi in tutto questo. Perché non si capisce come un Paese che compra energia dall’estero non debba procurarselo da sé, arrivando addirittura a rischiare di pagare robuste penali alle compagnie. Insomma, oltre a non risparmiare in bolletta, si paga anche un extra mentre gas e petrolio giacciono inutilizzati sotto i nostri mari. “Naturalmente qualcosa di profondamente sbagliato e distorto c’è. Quello delle trivelle è un esempio efficace di come l’Italia non riesca a crescere e continui nella sua decrescita infelice”, spiega Tabarelli. “Siamo ancora sotto il Pil del 2008, siamo in recessione e ancora prevale, con queste decisioni, la cultura anti-industriale. Una regola inconfutabile è che la tecnica, l’industria, porta valore aggiunto, Pil, ricchezza, occupazione, tasse…. Quelle delle trivelle è una piccola fetta di questa industria”.

Per il Movimento Cinque Stelle lo stop alle trivelle è motivo di orgoglio, ma per chi è nel mondo dell’energia le cose non stanno così.  “Siamo dinnanzi a una sconfitta di tutti, dell’Italia intera. Una sconfitta che parte da lontano e non è solo dell’ultimo governo. Già nel 2010 l’allora governo Berlusconi bloccò le perforazione entro le 10 miglia. E da allora le cose sono solo peggiorate. L’ultima Sen del governo Pd di produzione nazionale non ne ha voluto parlare. Addirittura nella modifica costituzionale del 2001, che ha dato potere alle regioni in tema di energia, ci sono i primi semi dell’odierno fallimento”.

Senza gas e senza petrolio, il governo Conte punta tutto sulle rinnovabili, che nei piani dell’esecutivo dovrebbero soppiantare nel tempo gli idrocarburi. Una bella intenzione, dice Tabarelli, ma che rischia di produrre una transizione troppo lunga per un Paese che non conosce l’indipendenza energetica.  “Tutti i governi degli ultimi 40 anni si sono schierati per le rinnovabili. Non si può essere contro di loro. Tutti siamo a favore. Ma i tempi sono lunghi, i costi alti, i limiti fisici ancora irrisolvibili. Il 70% dell’energia che consumiamo in Italia è gas e petrolio. Nel mondo è il 60%, e ciò nonostante decenni di politiche per ridurne l’importanza. Per noi è come se avessimo 2 mila pozzi, trivelle, che all’estero lavorano per noi, in Libia o in Russia, in condizioni di sicurezza ambientale ben peggiore”.

Il ricorso delle compagnie sulle trivelle è una sconfitta (di tutti). Parla Tabarelli

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