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L’Italia ha avuto un punto di forza nella continuità della sua politica europea, grazie alle scelte fondamentali del dopoguerra e alla lenta ma costante maturazione del suo sistema politico. Il consolidamento del consenso europeista e atlantista si è poggiato sull’architrave del patto fondativo della Repubblica e del cosiddetto “arco costituzionale”, ma fu segnato, ai tempi, anche dal ruolo della Democrazia cristiana e dall’evoluzione della sinistra socialista e comunista rispetto alla Comunità europea, in particolare attraverso figure quali Altiero Spinelli e Antonio Giolitti, Giorgio Amendola e Pietro Nenni.

Un’evoluzione sommatasi al contributo essenziale del pensiero laico, azionista, repubblicano e liberale di personalità come Gaetano Martino e Ugo La Malfa, e a quello dell’attivismo utopista radicale. L’europeismo italiano si è arricchito di una pluralità di motivazioni – cresciute sulla via segnata da Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi – che lo ha reso unico per capacità di includere correnti politiche e culturali. La continuità europeista ha dimostrato la forza inclusiva della nostra democrazia.

Altra prerogativa della politica europea dell’Italia è la flessibilità, intesa come capacità di azione secondo linee guida ma adattabile ai diversi contesti: dal Mediterraneo al Medio Oriente, dall’Europa dell’Est alla sfera transatlantica. La flessibilità non è una deroga ai principi e alle priorità geopolitiche. E’ ed è stata, piuttosto, un modo per compensare il divario di mezzi rispetto ad altri attori internazionali ed europei, e per tenere fede alla nostra vocazione geografica: quella di territorio cerniera, crocevia commerciale e culturale più durevolmente che potenza militare e politica. Questa vocazione è nella profondità del Paese, nelle città prima ancora che nello Stato.

L’ITALIA NON DIMENTICHI DI ESSERE STATA EUROPEISTA

La forza ideale e morale della ricostruzione ha alimentato la continuità e la flessibilità della nostra azione in Europa e nel mondo. La riflessione da compiere è quanto possa essere salvato di tutto questo. Non vi è dubbio che la rivendicazione della discontinuità sia ormai un parametro della politica contemporanea e che la flessibilità possa essere estesa fino a rompere il filo della coerenza. C’è il pericolo che diventi strutturale la declinazione in negativo di ciò che riguarda l’Europa: la contestazione delle regole, l’assenza di impegno nello spiegare la valenza di un quadro europeo di diritti, l’attribuzione all’Europa di ogni incapacità di affrontare problemi, dalla raccolta della spazzatura alle insufficienze nei servizi pubblici.

Questa tendenza può diventare trasversale in un sistema politico fragile in costante transizione e ostacolare un dibattito produttivo sulla riforma dell’Ue, i cui limiti sono ben evidenti. Tali limiti nascono dall’insufficiente sviluppo istituzionale e di politiche comuni dopo la trasformazione del 1989. Quel passaggio ha segnato anche il sistema italiano: il nostro europeismo ha perso rappresentatività quando si sono seccate (rimosse) le radici plurali che lo alimentavano. È stato un processo di lunga durata che dovrebbe preoccupare più delle fiammate di nuove demagogie. La rivoluzione più insidiosa per l’europeismo è la perdita di memoria.

GLI ITALIANI TRA CONTESTAZIONE E BISOGNO DI EUROPA 

Non è mai troppo tardi per ricercare, per quanto possa apparire illusorio, un confronto sull’Europa politica come occasione per un nuovo slancio ideale e non di accanimento polemico quotidiano[1]. Ricercarlo vuol dire riconnettersi con un Paese che esprime moti di contestazione di ciò che è l’Europa, ma che vive una realtà e una “aspettativa europea” non colta dalla politica. Il grande paradosso per l’europeismo italiano è che mai come oggi è forte la domanda di standard e livelli di vita europei, eppure mai l’euroscetticismo è stato così invasivo.

Per riconnettere l’europeismo a questa domanda di Europa servono progetti concreti, più che dichiarazioni sul giudizio universale che ci aspetta. Vi è il tema dello sviluppo della nozione di Europa che protegge e che agisce alle sue frontiere, in particolare nel Mediterraneo, e di come saranno possibili quelle forme di cooperazione strutturata indispensabili per farlo. Vi è il tema della partecipazione al gruppo di testa dell’Euro. Non possiamo lasciare la parte più avanzata d’Europa e restare indietro non si sa bene per quale modello.

Ciò impone di dire come arrivarci e cosa siamo disposti a concedere. Vi è il tema dell’attività su Brexit sfuggita dai radar – se non dei volenterosi addetti -, proprio mentre avviene il trasferimento di parti d’industria da Londra. Vi è la ricerca di un rapporto equilibrato con i Paesi dell’Europa centrale e orientale, importanti partner che sono un giorno la causa di tutti i mali e il giorno successivo gli interlocutori privilegiati. E vi sono molti dossier dove un’Italia che include e che propone, che cambia governi ma tiene la barra dritta, può difendere bene interessi nazionali.

RIPARTIRE DA NUOVE FORME DI PARTECIPAZIONE

Indico due elementi per contrastare una definitiva lacerazione del sistema politico intorno alla questione europea. Il primo è il tema dell’Europa sociale, imbrigliato in questi anni da spinte contrastanti ma indispensabile per recuperare consenso. Il secondo è la questione democratica. Sarà impossibile frenare l’indebolimento delle istituzioni senza la consapevolezza delle sfide sorte in questi anni. Occorrono forme di partecipazione che sostengano la dimensione parlamentare e non ambiscano a sostituirla: una democrazia partecipativa aperta a un maggiore coinvolgimento dei cittadini. Inserire le consultazioni, anche sulla base delle esperienze promosse dalle istituzioni europee in questi anni, in perimetri che non liberano partiti e istituzioni dalle loro responsabilità, far crescere partiti europei e rafforzare il ruolo del Parlamento europeo sono punti cruciali su cui non sono impossibili impegni condivisi.

Questo implica anche una responsabilità nella distinzione dei ruoli di maggioranza e opposizione. Il riconoscimento che la difesa della patria nazionale ed europea è patrimonio comune dovrebbe essere visto come il migliore antidoto a una politica dell’odio, nata fuori dall’Europa con quella distorsione dell’economia che toglie “pane e anima” a molti individui. In tempi di conflitti esasperati, interrogarsi su ciò che può riportarci con i piedi per terra diventa un compito forse illusorio ma necessario.

Non vi era nessun copione definito per l’Italia del 25 aprile. Partì da quel giorno una lunga opera di ricostruzione morale ed economica che molti decenni dopo non è ancora compiuta. Non vi è una storia scritta oggi per il nostro futuro se non quella della Costituzione e del suo legame con l’Europa unita.

[1] Diego Fares “Contro lo spirito di accanimento” in Civiltà Cattolica 4029, 216-230

(Articolo pubblicato da Affarinternazionali)

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