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La base spaziale italiana di Malindi, in Kenya, è finita sotto la lente d’ingrandimento della Relazione sul dominio aerospaziale del Copasir. Secondo il documento, infatti, “il sito risulterebbe ormai privo delle condizioni per poter effettuare lanci”, e per il Comitato “il costo della stessa base risulta al momento superiore ai vantaggi che se ne potrebbero ricavare”, invitando a riflettere sulla “effettiva necessità di conservare tale presidio” e sulle “reali prospettive future e sulle concrete possibilità di un suo impiego, qualora ritenuto funzionale alla tutela dei nostri interessi strategici”. Il Copasir, inoltre, registra con preoccupazione che l’infrastruttura è oggetto di “attività condotte da tecnici cinesi che accedono alla base, in virtù di un accordo bilaterale tra Pechino e Nairobi”.

L’attenzione alla Cina

Non è la prima volta che il Copasir, anche allargando il perimetro delle proprie funzioni, alza l’attenzione riguardo alle attività cinesi. Nella relazione annuale il comitato parlamentare di controllo dei Servizi segreti ha riacceso i riflettori sulla penetrazione del governo cinese negli asset strategici italiani. Dalla rete 5G alle università e la ricerca fino ai porti, la Cina “rappresenta un avversario strategico” per il Paese. Una prioratizzazione condivisa con gli Stati Uniti anche nei recenti incontri avuti dai membri del Copasir a Washington. Il rischio, nel caso specifico, è che quei tecnici che accedono alla base italiana possano essere cavalli di Troia, attualmente o in futuro, per operazioni di intelligence per conto del governo di Pechino. Una circostanza che non sarebbe di certo unica.

La storia del centro

Il centro spaziale Luigi Broglio deve la sua nascita al padre dello spazio italiano, da cui prende anche il nome. Nel 1966, Broglio, generale dell’Aeronautica, riuscì a realizzare la base spaziale grazie all’università La Sapienza di Roma (per cui presiedeva la scuola di Ingegneria aerospaziale) l’Arma azzurra e il supporto degli Stati Uniti (che riconoscevano il merito e le capacità del generale). Tra il 1967 e il 1988 il centro effettuò venti lanci dutilizzando la famiglia di vettori americani Scout. Il “San Marco 1” protagonista del primo lancio, il 26 aprile, diventò il primo satellite italiano messo in orbita. Un evento che segnò l’inizio dell’avventura tricolore oltre l’atmosfera, rendendo l’Italia il terzo paese al mondo, dopo Urss e Usa, a costruire, lanciare e controllare un satellite con proprio personale da una propria base di lancio. Nessuno dei venti lanci effettuati dalla base San Marco è fallito.

Le attività spaziali

Il centro è composto da due segmenti, uno terrestre deputato alla raccolta dei dati, e uno marittimo, composto da tre piattaforme di lancio oceaniche: San Marco e Santa Rita 1 e 2. Dopo l’ultimo lancio, effettuato il 25 marzo del 1988, il cento è ora utilizzato per il tracciamento di numerosi satelliti di varie agenzie dalla Nasa all’Agenzia spaziale europea. Nonostante non venga più utilizzato, la sua latitudine quasi equatoriale lo rende in realtà un ottimo sito di lancio.

La questione dei confini

Le piattaforme marine erano inizialmente poste fuori dai confini delle acque territoriali kenyote, che sono stati successivamente spostati. Dal momento che secondo le leggi internazionali, il territorio da cui viene lanciato un satellite definisce in parte la proprietà e la responsabilità dello Stato su cui la rampa di lancio sussiste, questo spostamento dei confini marittimi porterebbe di conseguenza i futuri lanci sotto l’autorità del Kenya. Lo spostamento dei confini ha anche riportato il centro all’interno dell’accordo bilaterale tra Pechino e Nairobi che consente ai tecnici cinesi di accedere alle strutture.

La Cina in Africa

La Cina è il principale partner commerciale del Kenya (con deficit commerciale nettamente a favore di Pechino), a cui garantisce anche investimenti diretti. Su tutti l’infrastruttura di collegamento tra Kenya, Uganda, Sud Sudan e Ruanda. La ferrovia Standard Gauge Rail (SGR), attualmente su un binario morto, è stata progettata utilizzando finanziamenti e appaltatori cinesi, attirando polemiche a causa di complicazioni finanziarie, domande sulla legalità dei processi di appalto e la presunta collateralizzazione del porto di Mombasa – potenzialmente vittima di trappole del debito, come successo con lo Sri Lanka. L’impegno della Cina con il Kenya è un buon esempio di come Pechino affronta la diplomazia economica in Africa. Inoltre, è un caso di studio rivelatore di come la Belt and Road Initiative funziona nel continente, producendo lavoro (anche se le condizioni dei dipendenti kenyoti nelle società cinesi non sono certamente rosee) e portando miglioramenti ai collegamenti, ma contemporaneamente creando una situazione in cui gli interessi delle élite africane e i profitti della Cina sembrano essere in contrasto con le necessità strette dei cittadini. Per il Partito Comunista cinese, quei profitti sono tanto economici, che politici, magari da poter giocare  come forme di allineamento pro-cinese all’interno delle organizzazioni multilaterali. Pechino ha anche recentemente rilanciato sulle proprie volontà di rinsaldare certi rapporti, mentre il continente diventa uno dei terreni di competizione tra potenze, con la Cina che vuole scalzare la presenza occidentale ed Europa attraverso forme neocolonialistiche.

Foto: Asi

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