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Tempo di coronavirus, cioè tempo di demagogia agitata a denti stretti, di polemiche dissimulate davanti alla webcam, di sorrisini stizziti più che ironici. Tempo in cui si mettono le mani avanti, per mantenere non solo (prudentemente) le distanze fisiche, ma anche (capziosamente) quelle ideologiche, minacciando – con la faccia buona però – il redde rationem a emergenza cessata. È il vizio inguaribile dei politici. E anche di non pochi giornalisti politicizzati. Se, da un lato, la natura deve al Covid-19 – come affermano i guru e gli scienziati – la possibilità di tirare una boccata d’ossigeno, vedendo diradarsi lo smog dal cielo delle metropoli mentre approfitta della pausa forzata cui l’ipertecnologizzato mondo umano è costretto in questi mesi, dall’altro lato la storia accumula cambiali che dovrà pagare a breve scadenza, a cominciare dal diffuso ringalluzzirsi dei sovranismi e dalla smentita della cooperazione internazionale, come pure dalla crisi dei progetti comunitari e dei sogni europeisti, chiamati a pagare dazio alle mille frontiere che si vanno riattivando.

L’Inno di Mameli assieme a Bella ciao, Celentano e colleghi suoi più giovani, tormentoni neomelodici e scioglilingua rap, risuonano a sera dai balconi, in flash mob sincronizzati su scala nazionale. E, a creare l’atmosfera giusta, le luci dei cellulari tremolanti dietro il vetro delle finestre. È il trionfo dell’orgoglio da copione, come nelle trasmissioni televisive. E della retorica – di destra e di sinistra – che trova la sua autostrada sui social, magari lungo la scia scenografica delle Frecce Tricolori, likate e ripostate non a caso persino da Trump.

Dico retorica per dire fuffa, chiacchiere, forse pure lacrime di coccodrillo, se è vero che a migliaia nei giorni scorsi hanno violato le misure di pubblica profilassi, percorrendo lo Stivale in tutta la sua lunghezza, stipati per ore dentro un treno, alito contro alito, col richiamo della foresta in petto e la voce della mamma nell’orecchio: “Affrettati, caro”. Hai voglia poi di dipingere striscioni per ringraziare gli eroi in corsia e per assicurare che tutto andrà bene.

Nessuno invece a cantare sulla porta di casa la Salve Regina o una qualche antifona tipica del periodo quaresimale. Un buon segno, per un verso: la preghiera cristiana è corale ma non assomiglia ai cori da stadio, rimane refrattaria alla piazza, sta in una stanza, come consigliava Gesù ai discepoli, cioè in seno a una comunità, sia questa riunita nell’assemblea liturgica, sia raccolta nella famiglia, intesa dal Concilio Vaticano II quale piccola chiesa domestica (è il senso dell’appuntamento che i vescovi hanno dato per le 21 di oggi, festa di san Giuseppe, proponendo la recita del rosario in casa). Nondimeno, per altro verso, un cattivo segno: se la gente non include più nel suo repertorio almeno una preghiera che sia veramente tale – non remixata in varie versioni rock, come è accaduto per l’Ave Maria che circola in rete – vuol dire che il cristianesimo popolare non esiste più, o si è ridotto a dimensioni residuali.

È una conseguenza della secolarizzazione, che dopo aver lungamente attecchito al cristianesimo dall’esterno, gli è penetrata dentro così a fondo da diventare in esso un fenomeno endogeno, trasformando così la fede da salda convinzione in mera convenzione. Ciò non significa che si sia estinta una certa ansia pseudo-religiosa, che rigurgita anzi in questi giorni, alla ricerca disperata e diffidente di salvezza, traducendosi in ricorso affrettato a un qualche dio tappabuchi, come lo chiamava Bonhoeffer, e in espedienti apotropaici, in improbabili catene di sant’Antonio (con cui il santo non c’entra un bel niente). O, ancora, in deleghe clericali, da ottemperare nel chiuso delle chiese.

Molti ecclesiastici si sono esercitati nell’escogitare delle soluzioni pastorali. C’è chi s’affida allo streaming – proscenio in cui molti preti si prendono la rivincita sui loro vescovi, dimostrando maggiore spigliatezza ed eccentricità –, chi consiglia di cercare su Google il significato delle parole che s’incontrano nei testi biblici, chi insiste sul classico registro delle pie pratiche. E chi, addirittura, la butta sul venale, rimuginando su come contenere le spese ordinarie o sospendere quelle straordinarie, dato che per ora non ci sono più entrate di un certo tipo.

Non lo sottolineo per amor di polemica: del resto il dibattito interno all’ambito ecclesiale, che pur si è acceso intorno alle chiese chiuse, è ormai così marginale da non sortire eco tra i banchi del Parlamento e negli uffici del governo, men che meno nell’opinione pubblica, eccezion fatta per qualche testata maldestramente laica che si affida a intellettuali gnosticheggianti, di quelli che, ignorando ciò che accade in diocesi dove l’epidemia impazza, rinfacciano ai preti di aver abdicato alla loro missione e invitano tutti gli altri – solo gli altri! – a tornare ad “ascoltar messa” (a “prender messa” si diceva una volta, quando la si concepiva come una cosa da incartare e mettersi in tasca).

Certamente non si deve dimenticare che nei secoli scorsi, durante le pestilenze d’ogni genere, preti, frati e suore, al seguito di vescovi come san Carlo Borromeo, non temettero di morire portando il conforto della fede ai malati. Nondimeno bisogna considerare che oggi i responsabili della guida pastorale della Chiesa, sanno ciò che san Carlo non sapeva. Sanno cioè che un prete che gira per le case di anziani e ammalati, rischia di farsi veicolo di contagio. Non semplicemente di contagiarsi, cosa che è accaduta nei giorni scorsi a decine di preti nel nord Italia, molti dei quali purtroppo vanno morendo. Bensì di contribuire a incrementare il contagio tra i familiari delle persone che vanno a visitare, tra la gente che poi ancora incontrano nel territorio parrocchiale o in famiglia. Del resto, sapere ciò che san Carlo non sapeva, non equivale a dimenticare ciò che san Carlo sapeva, cioè che occorre contagiare pure la fiducia nel Signore, con la testimonianza fattiva di una prossimità amorosa che ha il suo paradigma evangelico nel buon samaritano.

Semmai lo faccio notare per segnalare la vera debolezza che il coronavirus sta smascherando tra le file del cattolicesimo italiano: la scarsa frequentazione delle Scritture, la mancata confidenza col messaggio biblico, l’incapacità a ricavarne l’ascolto nei confronti di Dio, l’inesperienza nel tradurlo in preghiera, come è pur possibile fare rileggendo certe pagine, dai Salmi fino al Padre nostro. È il grave deficit che, in questa quaresima degenerata in quarantena, sta venendo a galla e che la Chiesa in Italia (e in Europa) dovrà colmare con la seria reimpostazione dei percorsi formativi e catechetici.

Si tratta di recuperare un forte ritardo pedagogico, accumulato nel postconcilio: non è stato efficacemente insegnato al popolo ecclesiale come essere adulto, come portarsi da se stesso al pascolo, come inoltrarsi sui prati verdi e come attingere alle fonti zampillanti della Bibbia, con la quale si può pregare “nella santa assemblea o nel segreto dell’anima”, come recita l’inno delle lodi mattutine che quotidianamente i preti celebrano, talvolta senza considerare che ciò è vero e vale non soltanto per loro.

La preghiera cristiana contro l'orgoglio da copione e la fuffa (di destra e sinistra). La riflessione di don Massimo Naro

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