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“Non cadremo a gennaio”, ha commentato Giuseppe Conte dalle colonne di Repubblica. “Avanti fino al 2023”, gli ha fatto eco Luigi Di Maio nella sua intervista al Messaggero. Il giorno dopo la discesa a Roma di Beppe Grillo – che ieri ha provato a blindare la leadership del ministro degli Esteri e a rilanciare l’alleanza con il Pd – i commenti ottimistici sulla tenuta del governo, in particolare tra i Cinque Stelle, sono autorevoli e numerosi. Così come i dubbi però che questo scenario possa davvero concretizzarsi. D’altronde i problemi sul tavolo rimangono gli stessi di qualche ora fa, dalle emergenze Ilva e Alitalia alle polemiche quotidiane tra i partiti e i leader della maggioranza.

L’interessamento di Grillo – che pure ha avuto l’effetto di rasserenare, almeno temporaneamente, il clima – è stato enfatizzato dai protagonisti del dibattito politico e dai quotidiani ma a conti fatti non è in alcun modo detto che riesca a invertire la pericolosa china sulla quale il secondo esecutivo guidato da Conte è scivolato in pratica fin dal suo insediamento. Innanzitutto per una questione di carattere e di abitudini potremmo dire: nel senso che il fondatore dei Cinque Stelle – intervenuto anche su richiesta del Pd, sempre più preoccupato e infastidito dall’atteggiamento di Di Maio – finora ha faticato a esercitare con continuità il suo ruolo di guida politica. Nelle occasioni importanti c’è quasi sempre stato, è vero – e la crisi di governo di quest’estate lo dimostra – ma al tempo stesso le sue pause di riflessione sono state numerose.

Non è un caso da questo punto di vista che dopo la nascita dell’alleanza tra i pentastellati e il Pd sia in qualche modo tornato nell’ombra, lontano pure fisicamente da Roma e dai suoi intrighi politici e impegnato su vari altri fronti, dagli spettacoli al blog. Grillo è così, un istrione capace di tutto, che proprio per questo poco si attaglia ai panni del leader politico. Mentre, d’altro canto, Di Maio appare soprattutto concentrato sul suo ruolo nel movimento, al punto di non aver voluto lasciare l’Italia neppure per il G20, nonostante l’incarico di ministro degli Esteri ricoperto. Nel movimento e, in un certo senso, di guastatore all’interno della maggioranza. Perché è vero che anche stamattina ha affermato di volere la sopravvivenza del governo fino alla fine della legislatura, ma è altrettanto chiaro come non abbia, pure in questa occasione, esitato a punzecchiare in diversi passaggi gli alleati del Pd.

A partire dalla Ius Soli, sul quale Nicola Zingaretti, non più di una settimana fa a Bologna, ha affermato di non voler transigere. “Non è una priorità”, ha liquidato la questione Di Maio, senza considerare che i Dem – dopo aver accettato il taglio dei parlamentari, la conferma di Quota 100 e l’eliminazione dello scudo penale sull’Ilva (con tutto ciò che potrebbe derivarne in termini occupazionali) – hanno adesso il disperato bisogno di portare a casa qualche successo identitario. E poi l’Emilia-Romagna in cui Di Maio – dopo il voto su Rousseau di giovedì scorso – ha annunciato che il movimento correrà da solo. Ovvero, da avversario del Partito democratico e del suo presidente uscente Stefano Bonaccini. Un voto, quello in programma il prossimo 26 gennaio, che evidentemente rischia di ripercuotersi direttamente sul governo nell’eventualità che i dem perdano la guida della regione per la prima volta nella loro storia.

In questo caso la segreteria di Zingaretti difficilmente riuscirebbe a resistere e così anche il governo. Di Maio ne è consapevole, ma nonostante ciò, e nonostante le richieste pressanti arrivate in tal senso da molti altri esponenti pentastellati, continua ad affermare che non farà l’alleanza. Con il rischio che il movimento possa finire con il rubare a Bonaccini voti decisivi nel testa a testa con la leghista Lucia Borgonzoni. Anche se poi sotto questo profilo la decisione finale non è stata ancora presa visto che si parla di un possibile scambio con i dem disponibili ad accettare un candidato Cinque Stelle in Calabria in cambio del sostegno del movimento in Emilia-Romagna.

Il tutto mentre continua a giocarsi sotto traccia, ma neppure troppo, la competizione interna al governo e ai pentastellati tra lo stesso Di Maio e Conte, malgrado anche oggi il premier abbia smentito di ambire a un ruolo di leadership politica. Tanti e tali temi di tensione da rendere nient’affatto sicuro il buon esito della missione romana di Grillo.

Grillo non basta. Ecco perché il governo resta instabile

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