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La National Conservatism Conference è un importante appuntamento annuale di incontro e riflessione ideato dalla Edmund Burke Foundation. Quest’anno si svolgerà a Roma, in partnership con l’associazione politico-culturale “Nazione Futura”, presieduta da Francesco Giubilei, e altre associazioni simili di altri Paesi.

L’argomento della conferenza, che si aprirà stasera e continuerà per tutta la giornata di domani al Grand Hotel Plaza di via del Corso, è: God, Honor, Country: President Ronald Reagan, Pope John Paul II and The Freedom of Nations. Vi parteciperanno intellettuali del calibro di Yarom Hazony e Douglas Murray e politici come Marion Maréchal e il primo ministro ungherese Viktor Orbàn.

Ad inaugurare i lavori Giorgia Meloni. L’evento, in sé rilevante, si presta ad alcune considerazioni. Prima di tutto, esso sancisce la conquistata consapevolezza della necessità, anche per l’area cosiddetta “sovranista”, di avere una solida sponda a livello internazionale: la sovranità non la si può affermare isolandosi ma creando una alleanza forte con chi, in altre parti del mondo, persegue obiettivi simili. Lo stesso nazionalismo classico, come esemplifica l’opera e l’azione dei maggiori artefici del nostro Risorgimento, tutto era fuorché “isolazionista” o poco attento alle interdipendenze internazionali e alle opportunità e rischi di una politica estera accorta. In Italia va detto che, da questo punto di vista, la leader di “Fratelli d’Italia” è molto avanti: sia per aver aderito al gruppo dell’Ecr (European Conservatives and Reformists), che è il secondo gruppo per grandezza nel Parlamento europeo, sia per i rapporti sempre più forti con i Repubblicani americani che si concretizzeranno con il viaggio di Meloni a Washington che è in programma da domani. Il tutto in un’ottica sempre coerentemente filo-atlantica, come ha ricordato ieri su questa pagina l’onorevole Ylenja Lucaselli.

La seconda riflessione da fare concerne più specificamente il tema della conferenza che mette a fuoco l’opera, diversa e convergente insieme, che Karol Wojtyla e Ronald Reagan condussero, negli anni Ottanta del secolo scorso, per liberare le nazioni che vi erano sottomesse dal giogo dell’imperialismo sovietico. Che si trattasse di movimenti nazionalistici (o nazionalista-cattolico nel caso della Polonia) è evidente dalla stessa ostinazione con cui quelle nazioni si stanno attualmente opponendo, in buona parte, a un nuovo e più soft imperialismo: quello dell’Unione Europea “allargata” (processo a cui avevano in un primo tempo aderito con entusiasmo e partecipazione). Che però quella lotta assumesse più al fondo, anche se non sempre (possiamo dire oggi) consapevolmente, il significato “epocale” della messa in scacco dell’ultimo totalitarismo novecentesco rimasto in piedi in Europa, quello comunistico o sovietico, e quindi di fine della “guerra fredda”, non può essere sottaciuto o passato in secondo piano. E di conseguenza nemmeno l’afflato conservatore e liberale, soprattutto di un Reagan (consonante con quello di Margareth Thatcher in Gran Bretagna), può essere sottovalutato.

E questo elemento induce a considerare il terzo punto della questione, a porci cioè la domanda su quale sia la nostra distanza concettuale, oltre che temporale, da quegli avvenimenti. In sostanza: il “sovranismo” odierno è, nel campo conservatore, una naturale evoluzione, dettata dallo spirito dei tempi, o un taglio netto rispetto a quello che era stato il conservatorismo nel passato? In verità, più che una generazione, sembra passata da allora una eternità: i processi di globalizzazione, non solo economica ma anche digitale (oggi la vera ricchezza è nel possesso dei dati piuttosto che dei denari), hanno cambiato senso alla politica, e alla comunicazione politica, polarizzando il discorso pubblico e creando, in seno alle stesse società occidentali, gruppi di interesse autoreferenziali e quindi affetti da manicheismo e faziosità. Di questi processi, Reagan e Wojtyla (di cui non possiamo dimenticare la capacità comunicativa), erano l’inizio o con il loro agire essi rappresentavano a tutti gli effetti la fine di un mondo? E poi: in che modo i cristiani e i cattolici debbono stare nel mondo: contrastando o assecondando lo Zeitgeist? E chi non è credente può utilizzare la religione a fini politici, come avviene normalmente a sinistra non meno che a destra? La malattia sono i “sovranismi” e i “populismi”, come tali virus da estirpare per ritornare alla “buona politica”, cioè in sostanza al consenso globalista, o essi segnalano la fine di questo consenso e il ritorno prepotente della politica senza aggettivi? Essi, nella forma attuale piena di contraddizioni e limiti, sono o no da considerarsi reattivi e quindi transitori, annunciando in verità più compiute sintesi? E come si può conciliare l’agenda “sovranista” con le strutture istituzionali e costituzionali che le democrazie si sono date? La messa in scacco delle pretese liberal e liberiste, su cui si fonda l’ideologia globalista, segnala la crisi del liberalismo stesso o ne ripropone con efficacia la dimensione più pura di metodo critico di ogni teologismo, anche di quelli che possono sorgere in casa propria?

Le domande, come si vede, sono tante e complesse: esigerebbero non risposte, perché quelle nella vicenda umana le dà solo la storia, ma capacità di porle con chiarezza e ponendosi alla loro altezza. In questa prospettiva, per l’Italia soprattutto, la Conferenza romana può rappresentare un buon inizio.

 

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