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Un tassello dopo l’altro il mosaico inizia a prendere forma. La politica estera è stata uno dei grandi interrogativi che ha accompagnato la nascita del governo rossogiallo. In meno di due mesi è diventata un potente collante della nuova maggioranza.

Di fronte ai dossier diplomatici più delicati il governo Conte 2 sta dimostrando una postura più composta e coerente di quanto le profonde divergenze ideologiche fra i due partiti entrati a palazzo Chigi potessero far pensare. Almeno per il momento, la gestione degli affari esteri da parte dell’esecutivo appare meno conflittuale di quella lasciata in eredità dal governo gialloverde.

Chiedendo la fiducia alla Camera, Conte aveva indicato nelle “relazioni atlantiche” e nel “rapporto con gli Stati Uniti” due “assi fondamentali che storia, geografia, tradizione politico-culturale ci impongono”. Una promessa che, per il momento, non è rimasta sulla carta.

Uno sguardo all’agenda di ottobre può chiarire. Nonostante le incomprensioni sulla spinosa questione dei dazi commerciali contro l’Ue, il bilancio del viaggio del ministro degli Esteri Luigi Di Maio a Washington Dc al seguito del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è da considerarsi positivo.

Il capo del Movimento Cinque Stelle, che ha tenuto un discorso all’ambasciata italiana, ha in effetti ricevuto da diplomatici e politici americani presenti un’accoglienza calorosa, non scontata per un ministro degli Esteri agli esordi.

Più recentemente il ministro della Difesa in quota Pd Lorenzo Guerini ha partecipato alla ministeriale Nato a Bruxelles. Lì, di fronte ai colleghi di 28 Paesi membri, ha promesso l’impegno del governo su due fronti: la continuità delle missioni all’Estero e la messa in sicurezza della rete 5g. Rassicurazioni che hanno incontrato il favore dei vertici Nato e dei presenti, a cominciare dal segretario alla Difesa statunitense Mark Esper.

Fin qui si potrebbe pensare che si tratti solo di “ordinaria amministrazione”. Due recenti episodi però possono aiutare a comprendere la nuova direzione di marcia che il governo ha imboccato in politica estera.

Il primo riguarda il Forum Eurasiatico di Verona, kermesse annuale presieduta dal presidente di Banca Intesa Russia Antonio Fallico (qui la sua intervista a Formiche.net), ormai un punto di riferimento per imprenditori e industriali italiani e russi, soprattutto per chi lavora nel mondo dell’Oil&Gas.

Questa dodicesima edizione, che ha visto un’alta partecipazione, ha avuto fra gli ospiti di onore figure di spicco del mondo politico ed economico russo, fra cui il potente oligarca Igor Sechin, ad di Rosneft molto vicino a Vladimir Putin, tutt’oggi sotto sanzioni del Dipartimento del Tesoro Usa per la crisi in Crimea (qui l’approfondimento di Formiche.net). L’anno scorso l’evento era stato aperto dall’intervento di Matteo Salvini, allora vicepremier e ministro dell’Interno. Invitati a prender parte a due importanti panel, quest’anno il ministro degli Affari Europei Vincenzo Amendola (Pd) e il ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (M5s) hanno infine declinato l’invito.

Il secondo è andato in scena giovedì, a Roma, in occasione della presentazione dei nuovi uffici di Huawei. Fino al pomeriggio del giorno precedente sulla locandina ufficiale figurava in bella vista il nome di Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri pentastellato. In serata è scomparso, e la mattina dopo l’unica autorità presente a complimentarsi con l’azienda cinese è stata, a sorpresa, il sindaco di Roma Virginia Raggi.

Impegni istituzionali, hanno fatto filtrare in entrambi i casi i rispettivi entourage. Le assenze istituzionali restano però indicative di una linea più prudente e meno erratica del nuovo governo su due questioni, il rapporto con la Russia e quello con la Cina, che molto hanno angustiato chi è stato nella stanza dei bottoni nei quattordici mesi precedenti. Se una cesura con la stagione gialloverde c’è stata, essa è da ricercare proprio nell’approccio alla politica estera. Il “cambiamento” passa anche e soprattutto da qui.

Cina e Russia? Non troppo. Così il governo si riposiziona (a Occidente)

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