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L’aderenza dell’Italia all’Alleanza Atlantica non si discute, e sull’industria della Difesa si sta lavorando per rendere più fruttuoso il rapporto tra governo e aziende. Parola di Luca Frusone, deputato del M5S, membro della commissione Difesa di Montecitorio e presidente della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato. Fomiche.net lo ha ascoltato per avere maggiori informazioni circa le intenzioni del prossimo governo giallo-rosso nel campo della Difesa, quantomeno per la componente grillina. La scorsa settimana, alcuni esperti e addetti ai lavori (tra cui l’ex capo di Stato maggiore della Difesa Mario Arpino su queste colonne) avevano espresso più di qualche preoccupazione per il tredicesimo dei venti “punti programmatici” presentati da Luigi Di Maio al presidente del Consiglio incaricato Giuseppe Conte condizionando ad essi la nascita del nuovo esecutivo. Dal documento emergeva infatti un approccio a tinte anti-industriali, senza alcun cenno all’Alleanza Atlantica, tra i primi riferimenti per la politica di Difesa dell’Italia repubblicana.

Presidente Frusone, in merito ai 20 punti del Movimento presentati a Conte, sono emerse alcune perplessità sui temi della Difesa.

Prima di tutto voglio precisare una cosa. Da una parte capisco le perplessità, ma credo che tutto sia scaturito dalla sinteticità di quei venti punti. In questa situazione c’è bisogno di celerità e di concretezza. Per questo non si è potuto illustrare in materia approfondita tutti i temi. Se guardiamo anche agli altri punti vediamo che anche lì esiste solo un’indicazione generale, per questo ben venga il vostro lavoro e ben vengano le domande come quelle del generale Arpino: strumenti utili a darci l’opportunità di approfondire il nostro pensiero.

Nei suddetti punti si parla ad esempio di riconversione industriale. Cosa si intende?

La riconversione industriale è stata trattata molte volte in Parlamento e non è una novità. Abbiamo sempre detto che alcuni settori sono in difficoltà per motivi di mercato o per alcune obsolescenze tecnologiche e che diventa necessario allora una riconversione, magari anche in ambito civile, di quelle produzioni che ad oggi sono in crisi. Se qualcuno ci legge una volontà di riconvertire aziende come Leonardo per fargli fare frigoriferi probabilmente non ha seguito il nostro lavoro sull’industria della Difesa con tavoli ad hoc, anche su temi che di solito vengono tralasciati come lo spazio, con lo sblocco di diversi programmi che da tempo chiedevano ossigeno o le varie proposte portate in Parlamento per rendere il rapporto tra industria e governo più fruttuoso e trasparente.

E per quanto riguarda l’assenza di riferimenti alla Nato? Qual è la posizione del Movimento sull’Alleanza Atlantica?

Come dicevo, quei venti punti sono indicazioni, seguirà, se tutto andrà per il meglio, un programma più articolato. La nostra posizione sull’Alleanza Atlantica – per chi segue i lavori parlamentari – è ben nota. Infatti proprio qualche mese fa è stata votata all’unanimità una mozione scaturita dal lavoro dell’Assemblea parlamentare della Nato, a mia prima firma, sull’aderenza dell’Italia all’Alleanza e sull’impegno ad aumentare gli sforzi negli scenari di rilevanza per il nostro Paese come il fianco Sud. Probabilmente, è la prima volta che entra in maniera così diretta nella discussione parlamentare, grazie a noi, il tema dell’Alleanza Atlantica. Infatti, una cosa che ho riscontrato in questi anni di Parlamento è che di questioni come la Difesa e la Nato, le altre forze preferiscono non parlarne se non in maniera superficiale. Ritengo che sia necessario parlarne apertamente, mettendo in discussione anche alcuni temi al solo scopo di apportare miglioramenti, mirando soprattutto a far crescere una cosa che manca molto nel nostro Paese, la cultura della Difesa.

Resta il nodo delle spese, con l’obiettivo del 2% del Pil ancora troppo lontano. C’è da invertire il trend?

In realtà il trend è già invertito, di poco ma è invertito. Uno degli ultimi documenti esaminati in Commissione è stato proprio il Documento pluriennale programmatico di cui sono stato relatore. Dalla lettura si evince chiaramente come la spesa per la Difesa sia tornata ai livelli pre-crisi del 2008. Naturalmente, questa crescita non c’è stata soltanto nell’ultimo anno, ma è stata costante nel tempo. L’obiettivo del 2% si deve raggiungere, ma ci vorranno anni. Giocherà un fattore decisivo proprio la cultura della Difesa. Ad oggi le spese per la Difesa sono in realtà qualcosa che va ben oltre quelle che un tempo venivano definite come spese militari. Ci sono dei campi come la cyber security che apportano sì vantaggio al comparto militare, ma soprattutto al comparto civile.

Ci spieghi meglio.

Si stima che i danni per attacchi cyber nel 2021 ammonteranno a una perdita di 6 trilioni di dollari nel mondo: nel mirino ci sono soprattutto aziende private. Se non si capisce che questi sono investimenti necessari nella Difesa per garantire l’economia del Paese non andremo molto lontano. Dall’altra parte si deve fare uno sforzo per migliorare la qualità degli investimenti. L’Italia ha sprecato negli anni miliardi di euro in progetti nati o finiti male, per puro vezzo di qualcuno o per far vivacchiare aziende sempre sul baratro del fallimento, tralasciando settori chiave. Non possiamo più permettercelo.

Nei punti presentati a Conte si parla anche di vendite all’estero (stop ai “Paesi belligeranti”). Nell’ultimo anno, governo e Parlamento hanno lavorato anche sul tema del sostegno all’export della Difesa, in particolare per gli accordi G2G. Proseguirete l’impegno anche con il Pd?

In realtà si chiede di rispettare la legge 185/90 e di iniziare a discutere con serietà, non solo a livello italiano ma anche a livello europeo, su come comportarsi di fronte a scenari asimmetrici o ibridi. La questione delle esportazioni delle armi è una delle ipocrisie che condisce il dibattito europeo, e lo Yemen ne è un esempio. La polemologia di Clausewitz è finita? Questo non può dirlo l’Italia da sola. Di certo lo potrebbe affermare l’Europa, considerando che su questo si potrebbe trovare un punto di convergenza, vedendo anche come si sono mossi alcuni europarlamentari del Pd. Il discorso dell’export poi mi aiuta a fare chiarezza sul primo punto: quello della riconversione. I due punti vanno letti insieme, nel senso che se stringiamo da una parte le maglie dell’export dando dei paletti che valgano per tutti Paesi europei e questa scelta ricade sul futuro di alcune aziende. Ecco che bisogna garantire le risorse per riconversioni, diversificazioni e continuità occupazionale. Per il resto riteniamo che sia utile avere uno strumento coordinato dal Governo che insieme agli accordi G2G sia in grado di sostenere l’industria della Difesa. Abbiamo bisogno di strumenti seri e non qualche pseudo-cabina di regia come quella presentata dalla Lega, avente come unico scopo quello di togliere la materia dell’industria della Difesa al ministro della Difesa per darla al sottosegretario alla presidenza del Consiglio.

A diversi osservatori i temi della Difesa sono apparsi in secondo piano in questa crisi di governo. È così? Perché?

I temi della Difesa sono quasi sempre in secondo piano, persino nei programmi nazionali. Questo perché è una materia per addetti ai lavori, ma soprattutto perché manca, come accennavo precedentemente, una cultura della Difesa. Quello che abbiamo iniziato a fare in questo anno e mezzo è stato proprio questo: incontri dove si spiegava al mondo civile come operano e cosa fanno le Forze armate, spiegando nel contempo perché il settore della Difesa sia fondamentale per ogni Stato. Questo gap nasce sia da una precedente volontà politica di tacere sulle spese della Difesa perché impopolari, sia da una chiusura del mondo militare verso il mondo civile che oggi poco a poco sta scomparendo. Quindi di Difesa si deve parlare nonostante si pensi molto spesso che le spese sostenute siano improduttive, salvo poi invocare l’intervento delle Forze armate alla prima calamità naturale.

Quali gli obiettivi, secondo lei, di un possibile governo M5S-Pd nel campo della Difesa?

Un settore dove siamo rimasti arretrati è quello della tutela del personale. A me dispiace che qualcuno pensi che i sindacati siano un attentato alla Difesa stessa. Questo è un chiaro esempio di quella chiusura che accennavo prima. Ci sono state sentenze che hanno aperto la strada e come legislatori dobbiamo farci carico sia delle esigenze costituzionali sia delle spinte cittadine, in divisa, che ci arrivano. C’è poi la questione del benessere del personale con la questione degli alloggi di servizio, che dopo una cinquantina d’anni dovrebbe essere risolta. In tal senso, ci sono stati segnali positivi da parte del Pd in commissione Difesa. Inoltre, la riforma della giustizia militare, il dramma dei suicidi e il riordino delle carriere sono tutti temi dove possiamo trovare un ampio margine di condivisione in Commissione. I temi che ho appena elencato, nonostante riguardino la Difesa, riscontrano in Commissione una convergenza molto spesso trasversale, seppur con qualche fisiologica differenza, nell’esclusiva volontà di salvaguardare l’interesse nazionale. Devo dire che quest’ultimo aspetto è riscontrato anche nella delegazione che presiedo presso l’Assemblea parlamentare Nato dove, rispetto ai colori politici, vediamo con più chiarezza quelli del Tricolore.

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