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Lo scontro tecnologico e di sicurezza tra Usa e Cina non accenna ad arrestarsi. Ottawa ha avviato – tra le polemiche della telco di Shenzhen e del governo di Pechino – l’iter per l’estradizione negli Stati Uniti della chief financial officer di Huawei Meng Wanzhou, che ora rischia ora fino a 30 anni di carcere per l’accusa di aver violato le sanzioni sul nucleare all’Iran. Ma la compagnia cinese – ritenuta dall’intelligence Usa anche un potenziale veicolo di spionaggio a beneficio delle autorità del Paese del Dragone – non è intenzionata a cedere e, anzi, sta passando al contrattacco.

L’ESTRADIZIONE

Nonostante la ferma e dichiarata opposizione dell’ambasciata cinese in Canada (che l’ha definita “un’esecuzione” politica), la Supreme Court of British Columbia ha programmato un’udienza di estradizione per domani 6 marzo. Durante quest’ultima, verranno fatte osservazioni dettagliate sul caso, senza tuttavia sfociare in un vero e proprio processo – quello che si svolgerebbe poi negli Stati Uniti.

LE RISPOSTE DI HUAWEI

Nel frattempo la telco cinese non è rimasta a guardare. Il chief financial officer del colosso Huawei non ha digerito il gesto del governo canadese e ha risposto citando in giudizio il Paese, la polizia di frontiera e quella nazionale. Secondo quanto dichiarato dagli avvocati della donna, questi l’avrebbero arrestata e interrogata senza mandato. Oltre a questo, la donna sostiene che le autorità l’abbiamo interrogata “mascherati” da polizia di dogana, costringendola a fornire prove e informazioni solo a causa di una richiesta statunitense. Secondo gli avvocati della manager (figlia del potente fondatore della compagnia, Ren Zhengfei), gli agenti della polizia di frontiera canadese avrebbero sequestrato i suoi dispositivi elettronici, estraendo password, visualizzando illecitamente il contenuto dei suoi documenti e tenendola all’oscuro circa i motivi dell’arresto.
Inoltre, la Cina non ha mai smesso di rispondere alla questione dell’arresto Wanzhou prendendo di mira alcuni cittadini canadesi. Si trovano al momento in una prigione cinese, infatti, l’ex diplomatico canadese Michael Kovrig e l’imprenditore canadese Michael Spavor, e a nessuno di questi due è stato concesso un avvocato per difendersi. Il loro fermo, interpretato da molti osservatori come una ritorsione per la posizione canadese, si è trasformato formalmente nelle scorse ore in una accusa di spionaggio (mentre Robert Lloyd Schellenberg, sempre di cittadinanza canadese, è stato condannato a morte – dopo una precedente condanna a quindici anni – per un’accusa di narcotraffico). Queste azioni hanno scatenato critiche a raffica da parte delle organizzazioni a difesa dei diritti umani, che hanno evidenziato come ai detenuti canadesi sia stato vietato di vedere le proprie famiglie, nonché di essere difesi da un avvocato.
Un’altra mossa, ancora non formalizzata, potrebbe prevedere infine una causa intentata contro il governo americano per il divieto imposto dall’amministrazione di usare apparecchiature di Huawei all’interno delle agenzie nazionali (ed è un altro punto che si starebbe discutendo nell’ambito dei negoziati commerciali tra i due Paesi).

LA STRATEGIA MEDIATICA

Ma le tensioni travalicano le aule di giustizia e le carceri. Dopo aver inaugurato una nuova strategia mediatica che ha visto esporsi pubblicamente Ren dopo anni di silenzio per negare ogni accusa (cosa fatta anche dal governo di Pechino), Huawei ha avviato una vera e propria campagna volta a influenzare l’opinione pubblica e, in particolare, la stampa americana. L’azienda – che sta vedendo crescere attorno a sé un fronte sempre più ampio di nazioni scettiche circa l’utilizzo delle sue apparecchiature per reti 5G – ha comprato una pagina pubblicitaria (descritta come una “lettera aperta”) sul Wall Street Journal, per offrire ai giornalisti americani di visitare i suoi quartieri generali di Shenzhen, nel Sud della Cina.

Huawei, l'estradizione di Meng Wanzhou negli Usa si avvicina (ma il colosso cinese non sta a guardare)

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