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Nell’epoca della programmazione dell’attimo e della disintermediazione tra società parallele – quella digitale e quella umana – la cornice dell’economia globale ha mutato i rapporti tra esseri umani nel contesto non solo socioculturale, ma anche antropologico modificando in maniera evidente obiettivi, previsioni e schemi di gioco per il mantenimento di un benessere collettivo. Adriano Olivetti diceva che “La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica, giusto?” e tale concetto sembra essere nuovamente attuale, se rivisto in una chiave interpretativa per lo sviluppo della nostra società nell’epoca 4.0.

Oggi il progresso sta creando nuovi strumenti e nuovi mercati, lontani dalle logiche novecentesche: una quarta via di sviluppo ed interpretazione economica in cui le mutazioni genetiche della classe lavorativa pongono una riflessione importante sul concetto del “bene comune” e sul rapporto tra istituzioni e crescita economica.

Se infatti l’economia come scienza nasce di per sé sostenibile e garantista, l’interpretazione e l’agire umano hanno creato una discrasia tra lo sviluppo industriale e tecnologico e la vita sociale dei suoi consumatori, sostenendo così una nuova lotta di classe tra chi può lavorare e chi non potrà più farlo, tra chi avrà un futuro perché specializzato e chi non potrà averlo.

L’impronta “social” non sancisce dunque solo un metodo bensì una visione di crescita: un sistema economico che oggi richiama le autority a costruire una cabina di regia unica che sappia rispondere con urgenza alla necessaria canalizzazione di risorse private per dare risposte a bisogni sociali e ambientali che non ne trovano nei bilanci pubblici.

Lo sviluppo infatti di un nuovo paradigma, come quello del Social Investments e dell’innovazione sociale, rappresenta una sfida di crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, alla cui realizzazione però concorrono in modo determinante ancora le risorse dei fondi strutturali e di investimento europei.

Tale opportunità permette oltremodo la creazione di un’alleanza economica pubblica e privata per la costruzione di un nuovo equilibrio sociale e generazionale che potrebbe dare vita all’umanesimo 4.0.

Una risposta immediata che potrebbe ridare linfa al corporativismo italiano dal settore finanziario a quello di categoria: un’immagine forte per rilanciare investimenti che favoriscano formazione e sviluppo territoriale, punti cardini per la ricostruzione di un tessuto economico autonomo e dinamico.

A velocizzare questo percorso è sicuramente l’innovazione. Il processo di digitalizzazione delle attività ha permesso di riequilibrare le risorse per un periodo limitato in vista di un nuovo modello di convivenza sociale e di sfruttamento delle risorse: la robotica ha permesso un processo di produzione industriale e di servizi a basso impatto ambientale ma la mancanza di un tessuto economico culturalmente pronto e diffuso non permette l’utilizzo e il consumo di tali opportunità.

Tale discrasia porta la necessità ad enti, istituzioni e privati di creare una grande rete con un linguaggio comune e con una mission ben precisa: ripartire dal concetto di bene comune prendendo in esame tre aree di sviluppo (finanza, energia e microfonanza) fondamentali per lo sviluppo territoriale, mettere a sistema gli attori di area (pubblici e privati), costruire nuovi brand con una struttura giuridica innovativa e che abbiano una road map di attività alternata tra profit e no profit – un esempio potrebbero essere le fondazioni holding- con una figura di garanzia che si riservi il giudizio sull’attività d’impatto sociale. Un sistema di tale portata permetterebbe la costruzione di un nuovo ciclo economico basato su servizi ad ampio raggio con ramificazioni in tutti i settori produttivi.

Un nuovo modo di fare impresa per le future generazioni 5.0 che credono nel loro territorio e nelle loro idee: la capacità di essere imprenditori sociali consegue ad avere nuovi contenuti e nuove capacità – tra cui le soft skills – fondamentali per lo sviluppo di tale cambiamento.

Un metodo che rappresenta dunque una nuova modalità di creare valore tra le persone, ponendo l’aspetto sociale come spinta pro attiva per il superamento della stagnazione dei tessuti lavorativi. Una questione quindi culturale che pone le sue radici nella dicotomia concettuale tra profitto e benessere globale, ossia rendere compatibile il rendimento economico con l’inclusività sociale, in primis nel salvaguardare il welfare e l’allocamento delle risorse pubbliche. Un processo quindi che può essere garantito inizialmente dalla creazione di fondi che servano a restituire il capitale addizionato dal rendimento prodotto dagli investitori e che sono dei generatori del mercato.

Una speranza quindi che apre uno scenario inedito per quanto riguarda la coesione sociale in cui si pone al centro l’uomo e le sue capacità, il superamento del concetto di “massa” e “massificazione” dell’immaginario collettivo post industriale, lasciando spazio ad un acceso dibattito sui “nuovi poveri”che diventano giorno dopo giorno nuovi protagonisti dei drammi sociali 4.0 tra emarginazioni e chiusura di possibilità di mercato.

digitale, innovazione

Umanesimo 4.0 e innovazione sociale

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