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Chi è stato il primo leader mondiale a chiamare il presidente turco Recep Tayyp Erdogan nei giorni scorsi, quelli bui dell’inizio del tonfo della lira e delle sanzioni americane? Ovviamente Vladimir Putin, con una telefonata in cui ha assicurato alla Turchia la vicinanza della Russia, garantendo maggior interscambio e cooperazione — ed Erdogan ha subito rilanciato, dicendo qualcosa come Mosca è meglio di Washington.

“It was vintage-Putin”, ha scritto Neil MacFarquhar, giornalista e scrittore nato in Libia e laureato a Stanford, parte del team del New York Times che ha vinto il Pulitzer per la copertura (anche da Mosca, da dove scrive) di come Putin stia cercando di diffondere l’influenza russa in giro per il mondo. “Vintage” perché è piuttosto classico che il capo del Cremlino sfrutti qualche occasione di debolezza all’interno del Sistema-Occidente per aprirsi uno spazio e forzare una spaccatura. Il caso della Turchia è perfetto: secondo esercito Nato, intesa speciale con gli Stati Uniti in piedi da anni (tra cui la custodia degli ordigni atomici nella base di Incirlik), relazioni aperte e cooperazione con l’Europa (e un accordo discusso per il controllo della partenza dalla rotta balcanica dei migranti). Mosca ha già cercato di allettare Ankara, portandola nel sistema a tre con l’Iran per gestire la crisi creata dal conflitto siriano: i turchi, che da sempre reclamavano la testa del regime di Damasco decisero di trattare con gli unici due difensori del rais, in cambio di libertà d’azione contro i curdi, alleati che l’America ha invece usato per combattere il Califfato proprio al confine turco-siriano (ossia per risolvere una piaga che martoriava con attentati il paese di Erdogan).

Solo la capacità soft-hard di Putin avrebbe potuto portare al suo stesso tavolo un attore con cui pochi mesi prima era al limite dello scontro militare per via di un jet russo abbattuto da quelli turchi nel nord siriano; e sfruttare questo spostamento di asse di Ankara per aprire crepe in Occidente. Però, fa notare MacFarquhar, se quello con la Turchia pare funzionare, il piano più grande putiniano per il momento ancora resta fermo.

Putin non è riuscito a spaccare l’allineamento occidentale che ha disposto contro di lui le sanzioni dopo l’annessione della Crimea e la crisi militare del Donbass. Ci ha provato in tutti i modi, negli ultimi anni da alcuni paesi europei si sono alzate posizioni che dichiaravano la necessità di normalizzare i rapporti con Mosca, ma quelle linee non sono mai passate fino a diventare esecutive — nemmeno dopo che il governo populista italiano aveva fatto scatti in avanti su queste posizioni filo-russe nei giorni prima del Consiglio europeo di qualche mese fa: alla fine la decisione di mantenere le sanzioni è passata unanime.

D’altronde anche Roma s’è trovata costretta a scegliere: o aprirsi del tutto a Putin o coltivare la relazione speciale instaurata con Donald Trump. Già, perché l’americano guida un’amministrazione che manda in confusione la Russia. “Come il lama a due teste del Dr Doolittle”, scrive MacFarquhar con un’immagine eccezionale, Washington è sia Trump che flirta con Putin, quasi in posizione subordinata al vertice di Helsinki, che le altre branche del governo che anche in queste settimane (non solo hanno confermato la necessità di quelle già in atto ma) hanno minacciato nuove sanzioni contro la Russia e i suoi sporchi giochi di influenza attraverso le info-ops durante le elezioni.

E Mosca stenta. Il rublo, nei giorni del ventilato soccorso a Erdogan, non andava troppo meglio della lira turca. “La gente dice: ‘Per favore mantieni la Russia come una grande potenza, ma non a scapito delle nostre entrate’” ha spiegato al Nyt Lev D. Gudkov, direttore del Levada Center, un’organizzazione indipendente di sondaggisti: “Quando hanno iniziato a percepire che la politica estera di Putin è diventata troppo costosa, l’atteggiamento ha cominciato a cambiare e il senso di irritazione è in aumento”.

La ricostruzione spinta dalla propaganda governativa russa dell’accerchiamento occidentale al quale rispondere con atti come l’azione in Crimea (o in Georgia prima) ha unito i russi attorno alla bandiera finché il livello di spregiudicatezza — come quello in Siria — non è arrivato nelle tasche dei cittadini. Forzature per aiutare le casse statali, come quella in discussione adesso sul prolungamento dell’età pensionabile, che la gente russa sente con molto più interesse delle questioni crimeane o del destino siriano.

Dopo Helsinki, e dopo i Mondiali, il 42 per cento dei russi dice di sentire sentimenti positivi verso l’Occidente: percentuale mai così alta dai tempi della Crimea. L’approval putinano mantiene alte quote, salito addirittura di 15 punti a luglio, secondo un dato di Levada; ma altri numeri, come quelli usciti venerdì dal FOM — la Public Opinion Foundation che a volte collabora col Crenlino — dicono che solo il 45 per cento dei russi rivoterebbe un’altra volta Putin presidente (peggior dato negli ultimi cinque anni); con il numero di coloro che non hanno fiducia nelle capacità dell’attuale presidente di dare alla Russia un futuro migliore che cresce al 35 per cento (a maggio era al 19).

Il governo di Mosca prova a far passare le sanzioni mosse dall’America come le conseguenze di divisioni all’interno della politica statunitense; una sorta di complotto per minare Trump che invece è più aperto alla Russia. Di questo i russi pagano le conseguenze, non di quelle azioni spregiudicate della leadership del Cremlino. Ricostruzione allettante anche per qualche fanatico trumpiano, ma vicende come il caso Skripal — il tentato assassinio nel Regno Unito di un’ex spia russa, Londra che accusa Mosca, Ue e Usa pronti nella risposta severissima e univoca — hanno dimostrato la compattezza occidentale su certe posture. Compattezza che Putin, ancora, non è riuscito a scalfire.

erdogan

Putin abbraccia Erdogan, ma sulle sanzioni non riesce a spaccare l’Occidente

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