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Le parole del ministro degli interni richiamano momenti bui della storia e sottendono una strategia comunicativa spregiudicata raccontata molto bene da Francesco Cancellato su Linkiesta. Una strategia però molto pericolosa che presta il fianco agli istinti xenofobi e cavalca il consenso attraverso la paura e il rifiuto dell’altro. Proprio per queste ragioni la lettura del libro di Ignazio Punzi, I quattro codici della vita umana: filialità, maternità, paternità, fraternità (ed. San Paolo)  è una lettura che rimette in fila, diciamo così, i fondamentali, della “relazione” con l’altro.

Se la modernità ha esasperato la riflessione del soggetto in chiave individualistica e intorno a questa ha costruito un modello economico e di sviluppo, la “post modernità” si sta riposizionando nella progressiva scoperta e potenzialità delle relazioni. Una rottura di paradigma che forse sarà meglio apprezzata a distanza di anni. Alcuni aspetti dai contorni ancora poco chiari e con mille contraddizioni stanno venendo alla luce nel campo economico con la sharing economy, l’economia della condivisione, ma questo è solo un aspetto. L’umanità sta vivendo una fase di grandi trasformazioni e opportunità. L’infosfera e la tecnologia stanno cambiando i paradigmi di molti aspetti della nostra società, dal lavoro al rapporto con l’altro, spesso dandoci una sensazione di smarrimento e precarietà. Siamo forse ad un bivio della nostra storia e sta a noi scegliere: prendere la strada di uno sviluppo delle relazioni nel cammino dei popoli che traguardi e orienti l’”amore” per l’altro come energia fondamentale per l’evoluzione umana, oppure rimanere inchiodati ad un  presente divisivo e di paura. Filosofia? No! Punzi è un uomo di campo uno che scrive dal fronte,  psicologo e psicoterapeuta a partire dagli anni ’80 con la Caritas diocesana di Roma diretta da Don Luigi Di Liegro, si è occupato per vent’anni di bambini e adulti malati di HIV/AIDS e nel terremoto dell’Aquila dei bambini affetti da stress post traumatico.

Se il modello di uomo vincente del nostro tempo è il self made man quello che non deve dire grazie a nessuno, senza legami, narciso, Punzi ne vira di 360° l’idea patinata: nell’autosufficienza non c’è posto per la gratitudine e, in barba a tutte le promesse, questo modello ci ha fatto scoprire più fragili, più vulnerabili e incerti rendendo le nostre vite precarie e in balia degli avvenimenti della vita.

Per questo è sempre più urgente recuperare un’antropologia  che ci faccia uscire dal deserto dell’individualismo; gli antidoti sono dono, relazione, ospitalità, ecco le parole chiave che scardinano il pensiero dominante. Sumus ergo sum, siamo quindi sono! Perché anche Cartesio ha avuto una madre che lo ha messo al mondo. “La materia non esiste! Ciò che chiamiamo così è solo un tessuto di relazioni” asseriva il Nobel per la Fisica Niels Bohr. Mai come oggi la ricerca scientifica, umanistica e filosofica è concorde nel riconoscere che la realtà è costituita da oggetti e fenomeni legati da una fitta e complessa trama di rapporti e non di fatti isolati tra loro: una caratteristica sistemica del creato che ritroviamo anche nella Laudato Sì di Papa Francesco. Dimostrata anche dalla scoperta tutta italiana dei neuroni specchio: l’altro è un altro tu. Questo, secondo Punzi, è il segno che gli scienziati contemporanei stanno dando fondamento a quello che la tradizione giudaico-cristiana ha sempre sostenuto: la creazione è sotto il segno della relazionalità. L’ospitalità è iscritta nella nostra carne: prima di ogni sguardo, prima di ogni nutrimento, abbraccio, sorriso e prima di conoscere il nostro stesso nome, ognuno di noi ha fatto l’esperienza dell’ospitalità nella madre, nasciamo ospitati e dipendenti da altri ci ricorda Punzi.

Dentro questa dipendenza c’è anche il nutrimento, non solo materiale ma anche delle parole: della parola che nutre e crea. Ma la parola è anche fonte di distruzione, inganno, umiliazione. Quello che siamo, nel bene e nel male, lo siamo grazie alle parole e questo è vero per il singolo come per la società. Un richiamo forte quello di Punzi che invita a riflettere sulla parola e sull’influenza che l’emotività legata all’uso delle parole genera nella società, nella politica, un potenziale aumentato esponenzialmente dalle tecnologie ITC.

Punzi analizza la figura del Padre attraverso Ettore, l’eroe dell’Iliade, “venuto a salutare per l’ultima volta la moglie Andromaca e il figlio Astianatte prima di andare ad affrontare Achille, sotto la cui spada morirà. Ettore  tende le braccia al figlio che si spaventa del padre, ha l’armatura e l’elmo è sovrastato da una chioma imponente. A questo punto madre e padre sorridono. Ettore  si sfila l’elmo, lo pone a terra e abbraccia il figlio (…) Formulando un augurio per il futuro, alza il figlio in alto con le braccia e con il pensiero. Questo gesto sarà per tutti i tempi il marchio del padre. Il padre è colui che levandosi l’elmo, si abbassa al livello del figlio, gli mostra il suo volto di uomo e lo eleva al cielo augurandosi di essere superato”. Ettore è la figura dell’uomo che, pur non rinunciando al suo ufficio e alle sue responsabilità nei confronti della comunità civile, si fa padre nell’immediatezza del rapporto con il figlio, nella consegna e benedizione. Oggi invece, il nostro tempo di uomini spesso narcisi e smarriti, accade che il padre da benedicente si è ridotto a benefattore: invece di parole sacre ha dato oggetti profani. Un richiamo forte alla crisi di genitorialità.

Anche nella paternità il primo “altro” del bambino è nella sua esperienza con il padre, la parola del padre è modello di ogni alterità estranea che produce movimento e cambiamento. I padri consegnano al futuro e devono sapere anche aiutare i figli a pensarsi nel rapporto con la loro mortalità .

Punzi racconta la fraternità attraverso la sua esperienza negli anni ’80 nella Caritas diocesana di Roma, dove lavorava di notte come volontario. Ricorda Carmela, “una donna che all’epoca aveva 56 anni e viveva nelle panchine della stazione Tiburtina, erano sei anni che non dormiva nel letto dopo che il marito aveva usato l’ultima violenza cacciandola via di casa per aver partorito un bambino morto. Carmela passava le notti seduta all’ingresso dell’Ostello dove alternava urla a momenti di tranquillità, erano stati inutili tutti tentativi per fare breccia nel suo mondo. Una sera – racconta Punzi – arrivai al lavoro preoccupato per lo stato di salute di mia madre. Quella sera Carmela mi si è avvicinata e chiesto: ‘Perché sei pensieroso?’. Le ho raccontato tutto di getto, senza pensarci. Carmela ha ascoltato in silenzio e poi è  tornata a sedersi al suo solito posto. Il giorno dopo alle 22 ora del mio primo turno Carmela mi è venuta incontro con in mano una bottiglia di succo di frutta e un mazzolino di fiori: portali a tua madre. Da quel giorno le chiacchierate notturne con Carmela sono diventate sempre più frequenti, tornò a dormire nel letto e a vestirsi bene. Mi sono sempre chiesto cosa è successo quella sera. Forse Carmela ha provato a vedermi, vedere non è guardare, osservare superficialmente, vedere implica riuscire a sintonizzarsi con quei movimenti profondi che ancora non trovano parola. Vedere è dire all’altro ‘tu per me esisti’ in questo senso ‘vederlo’ significa rivestirlo di dignità. Perché ciò accada è necessario accogliere l’altro dentro di sé, fargli spazio”.

Un libro che emoziona, fa piangere e riflettere, quello di Ignazio Punzi; che va oltre, apre interrogativi  sulla nostra antropologia e umanità, sulla complessità del mondo ma  attraverso un linguaggio che racconta di vita vissuta e quotidianità e che non ha paura di mettere a nudo le nostre debolezze e fragilità. Un libro quasi scandaloso se rapportato alla cronaca di questi giorni quando uomini mediocri sembrano esibirsi  da modello ad un mondo chiuso e violento. Per questo il libro va letto per riconquistare la  speranza, che a conclusione del libro sta dentro quel “grazie papà, perché mi hai insegnato a stare in piedi e guardare fiducioso lontano” .

migranti, minori

I quattro codici della vita umana come antidoto all'individualismo

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