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Alla Cop28 dello scorso dicembre il magnate cinese del solare Li Zhenguo parlava di costruire un sistema energetico “benevolo ed equo” per alimentare il processo di decarbonizzazione, grazie alle opportunità “illimitate” garantite dall’energia rinnovabile. Tre mesi dopo, la sua azienda Longi Green Energy Technology Co. – uno dei titani della produzione di pannelli solari a livello globale – ha licenziato 4.000 lavoratori, pari al 5% del totale (secondo Bloomberg c’erano piani per tagliarne il 30%). E a maggio Longi ha lanciato un avvertimento: più della metà delle aziende cinesi legate al solare potrebbero fallire.

Il rischio che si profila all’orizzonte è legato a doppio filo alla politica industriale di Pechino e al forte rallentamento della sua economia, dovuto in parte al declino delle esportazioni. Il nodo si chiama sovrapproduzione. Lo stesso aumento di capacità produttiva che ha permesso all’industria cinese di abbattere i costi dei pannelli solari del 90% in un decennio (anche grazie a una presa ferrea lungo l’intera supply chain) e che le ha portate a dominare il settore (circa l’85% dei pannelli solari a livello globale sono Made in China, mentre la produzione nel resto del mondo è calata a picco) gli si sta ritorcendo contro.

Al momento il settore del solare cinese è alle prese con il taglio dei sussidi statali, un forte declino dei profitti e un calo dei prezzi dei pannelli di 40-50% negli ultimi 12 mesi, cosa che ha scatenato una feroce guerra dei prezzi, la quale, a sua volta, sembra sul punto di provocare un “periodo di brutale consolidamento” nelle parole di Bloomberg. “Non ci sono ancora notizie di fallimenti importanti. Ma l’allarme lanciato a maggio dalla Longi […] non sembra più inverosimile”. Se è vero che l’industria del fotovoltaico è ciclica e che le aziende più grandi hanno abbastanza risorse per rimanere competitive, è anche vero che le realtà più piccole non avrebbero accumulato abbastanza fondi per sopravvivere al prossimo periodo di magra.

Rispetto al passato, le prospettive per i produttori cinesi sono più tetre. Sul lato interno, il governo sta rivedendo i sussidi che negli scorsi anni hanno alimentato un’espansione del settore che oggi sembra eccessiva (due quinti del Pil cinese sono legati alle industrie della transizione). A febbraio il vicepresidente di Longi Dennis She, ha dichiarato al Financial Times che il tasso di utilizzo degli stabilimenti aziendali era sceso al 70%. La stessa testata riporta l’analisi di Climate Energy Finance, un think tank australiano, secondo cui la Cina a inizio 2024 stava espandendo la capacità di produzione di oltre 1.000 GW – a fronte di una necessità nazionale di 280-320 GW e di una domanda estera in declino.

Quest’ultima è anche una conseguenza delle preoccupazioni occidentali sul dumping cinese – che in effetti ha obliterato quasi completamente i concorrenti europei e statunitensi dagli anni Duemila a oggi. Pur trovandosi quasi totalmente dipendenti dai produttori cinesi per portare avanti l’installazione di capacità solare, il fronte occidentale sta irrigidendo la sua posizione rispetto alla Cina. Basti pensare alle mosse europee contro l’auto elettrica cinese e alla pressione dei produttori europei di pannelli. Ma anche ai fari accesi dagli Stati Uniti, dove un gruppo bipartisan di senatori ha chiesto al presidente Joe Biden di aumentare le tariffe sul fotovoltaico cinese – e dove lo scorso agosto il Dipartimento del Commercio ha scoperto che i produttori cinesi, tra cui la controllata di Longi Vina Solar, “cercavano di evitare il pagamento dei dazi statunitensi completando lavorazioni minori in Paesi terzi”.

Questi venti contrari non indicano certo il tramonto del solare cinese, che al momento rimane fondamentale per il processo globale di decarbonizzazione in virtù del dominio che esercita sul settore e dell’integrazione con i mercati esteri. La stessa Longi è fortemente internazionalizzata, con fabbriche in Vietnam e Malesia, una joint venture con Invenergy in Ohio e uffici commerciali negli Stati Uniti, Australia, Giappone, India ed Emirati Arabi, con prospettive di entrare anche in Arabia Saudita attraverso un partner locale, scrive FT. Però i segnali fanno presagire un importante ridimensionamento delle industrie cinesi, con relative opportunità per le concorrenti nostrane.

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