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Il ministro Luigi Di Maio si è scelto un ruolo “calcistico” ben preciso nel governo, quello dell’ala destra. È un ruolo che egli interpreta con naturalezza ed è anche un ruolo tatticamente sensato, poiché copre una “fascia” nella quale nessun altro gioca nel governo giallo-rosso, ad eccezione di Giuseppe Conte e di Matteo Renzi.

I due ex premier però non possono (come invece può fare Di Maio) schiacciare l’acceleratore in tema d’immigrazione ed ecco quindi il ministro degli Esteri trovare campo libero su quel fronte.

Si potrebbe quindi pensare che ciò indichi una condizione ottimale per l’ex coordinatore del M5S, che però si rivela assai meno presente se guardiamo i fatti in prospettiva, tornando con la memoria ad un anno fa, cioè al tempo del Papeete prima maniera.

Cos’è infatti il governo giallo-verde in estrema sintesi? È una diarchia con uso di primo ministro, in cui i due vincitori delle elezioni (Di Maio e Salvini) dispongono di tutte le leve politiche per condizionare ogni decisione e che vede un abile e “presentabile” professore universitario nella posizione di front man del governo (privo però di autonomia politica).

In quel governo i due “dioscuri” non conoscono rivali: una volta trovata la “quadra” tra loro possono portare il governo dove vuole, possono dare corpo ad una rivoluzione che porta alla guida del Paese per la prima volta (e congiuntamente) due partiti populisti e sovranisti, facendo dell’Italia un caso unico nell’Europa tutta.

Su questa indiscutibile novità piomba l’agosto incredibile dell’anno passato, un mese che vede i due protagonisti di questa storia perdere il filo del dialogo, iniziare a beccarsi in pubblico a suon di tweet e post per poi finire con l’uscita della Lega dal governo e la nascita (esclusa per migliaia di volte in pubbliche dichiarazioni) di una nuova maggioranza parlamentare tra il M5S ed il suo nemico storico, quel Pd che pur sconfitto alle elezioni del 2018 torna a governare un anno dopo nel tripudio di applausi di quasi tutto l’establishment nazionale, europeo ed atlantico.

Insomma un bel ribaltone che ci permette adesso di confrontare la posizione di allora di Salvini e Di Maio con quella di adesso, vedendo con chiarezza che ci hanno rimesso tutti e due.

Cominciamo da Salvini, che proprio in queste ore è tornato al Papeete.
Un anno fa era il potente ministro dell’Interno e vice premier, capo del partito più forte del continente (34% alle Europee 2019), punto di riferimento di tutta la destra dentro e fuori Ue.

Godeva del monopolio sul tema suo cavallo di battaglia, cioè l’immigrazione, di cui aveva anche la delega istituzionale ed operativa e disponeva della garanzia di copertura politica dell’alleato grillino, che non a caso vota contro la prima richiesta di autorizzazione a procedere avanzata dalla magistratura. Insomma Salvini era forte, anzi fortissimo.

Anche Di Maio però non era da meno: titolare di due ministeri pesantissimi (Sviluppo Economico e Welfare) e capo politico del movimento era al centro di tutte le decisioni, anche se aveva dovuto subire lo smacco di un secco ridimensionamento nelle urne per l’elezione del Parlamento Europeo.

Veniamo al presente e osserviamo la situazione.

Al governo c’è il Pd, non in grande salute in termini di consensi ma fortissimo nei posti di potere che contano, non solo in Italia. Un Pd che può contare sul Capo dello Stato, sul presidente del Parlamento di Bruxelles, sul commissario Ue e sui ministri dell’Economia, delle Infrastrutture, della Difesa e molto altro ancora. Al governo però c’è anche Giuseppe Conte, che è passato da timoroso esecutore della volontà dei “diarchi” a protagonista della situazione, in grado di calamitare consensi sulla sua persona che saranno assai utili in futuro per molte battaglie, compresa quella per il Quirinale del 2022.

Salvini invece ha perso dieci punti nei sondaggi e viene insidiato da Giorgia Meloni, si trova fuori dal governo e con due processi in arrivo, senza considerare l’isolamento in Europa per il ritrovato vigore degli accordi tra popolari e socialisti (intuiti per tempo dai grillini che a luglio 2019 votano a favore della nuova presidente Ue Ursula von der Leyen).

Di Maio è certamente ancora nell’esecutivo (ma con una delega tanto prestigiosa quanto marginale sul piano operativo) e però non è più capo politico del partito e soprattutto deve fare i conti ogni giorno con un Pd che è naturalmente vocato all’azione di governo, quindi portato ad occupare tutti gli spazi.

Insomma, a un anno dalla stupefacente crisi di governo del 2019 possiamo dire che l’incapacità di Salvini e Di Maio di mettersi d’accordo ha prodotto due vincitori (Conte e il Pd) e due sconfitti (i medesimi Salvini e Di Maio, pur con diversa “gradazione”).
A Bruxelles (e Washington) molti si fregano le mani per la soddisfazione.

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