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Dopo le incertezze sul ritiro americano, la Russia prova a prendersi l’Iraq. Lo fa con la punta di diamante del suo export militare: il sistema missilistico S-400 che ha già contributo allo strappo tra Ankara e Washington. È il prezzo del protettorato che Mosca, forte dell’asse con Teheran e dell’influenza iraniana nella politica irachena, mette sul tavolo di Baghdad. Aggiunge così un tassello alla crisi innescata dall’uccisione di Qassem Suleimani, un elemento che squarcia il velo sulle intenzioni della Russia di dire la sua sull’Iraq che verrà.

LA PROPOSTA

La proposta di fornire l’S-400 arriva tramite l’agenzia Ria Novosti da Igor Korotchenko, esperto militare con molto credito al Cremlino, membro del Consiglio pubblico del ministero russo della Difesa, un organo consultivo a disposizione di Sergey Shoygu, titolare del dicastero. “L’Iraq – ha detto l’esperto – è un partner della Russia nella cooperazione tecnico-militare e la Federazione russa può fornire i mezzi necessari per garantire la sovranità del Paese e una protezione affidabile dello spazio aereo, come con la fornitura di S-400 e di altri componenti del sistema di difesa aerea”.

IL MOMENTO

La proposta arriva nel momento più delicato per i rapporti tra Iraq e Stati Uniti. Domenica, il Parlamento iracheno a chiara impronta filo-Teheran (qui si spiegava perché) ha approvato una risoluzione in cui si afferma che “il governo deve lavorare per porre fine alla presenza di truppe straniere”. Ieri sera, è servito il capo del Pentagono Mark Esper per negare i piani di ritiro americano dal Paese dopo che era circolata la lettera con cui il comandante della coalizione internazionale William Seely III annunciava il riposizionamento dei reparti in vista di un loro rientro. C’è dunque una certa fibrillazione, su cui comunque Washington ha ottenuto, sempre ieri, il supporto degli alleati della Nato, riunitosi con i rappresentanti permanenti al quartier generale per una riunione straordinaria del Consiglio Nord Atlantico. La missione dell’Alleanza, ha specificato il segretario Jens Stoltenberg, è temporaneamente sospesa, in attesa che le condizioni di sicurezza sul terreno ne rendano possibile una riattivazione.

L’ARMA DI PUTIN

In questo contesto si inserisce la proposta di Mosca, relativa a un sistema di difesa aerea che protegga da eventuali minacce dal cielo e mantenga la sovranità nazionale. Tema sensibile per gli iracheni dopo il raid missilistico all’aeroporto di Baghdad, che lo stesso premier dimissionario Abdul Mahdi ha criticato come lesivo proprio della sovranità nazionale irachena. L’utilizzo dell’export militare come strumento di politica estera e di influenza non è certo una novità. Né lo è il ricorso di Mosca all’S-400. Lo scorso settembre, i media di Mosca a diffusione globale (Tass e Sputnik su tutti) hanno rilanciato l’avanzamento delle consultazioni per la vendita del sistema missilistico all’Arabia Saudita. Lo stesso assetto sarebbe di interesse del Qatar, mentre è stato direttamente Vladimir Putin a confermare a novembre la sua fornitura all’India. Tra i più noti c’è il caso della Turchia, ben più spinoso vista la partecipazione di Ankara alla Nato e la sua integrazione nei sistemi di difesa alleati. L’S-400 è il simbolo dello strappo con gli Stati Uniti e dello scivolamento tra le braccia di Putin, causa dell’esclusione dei turchi dal programma F-35.

QUELL’ESERCITAZIONE DELL’F-35

Nel frattempo, gli Stati Uniti lanciano un messaggio proprio con il caccia di quinta generazione. Ieri, dalla base aerea di Hill, nello Utah, ben 52 F-35 in dotazione al 388° e 419° Fighter Wing dell’Usaf hanno preso il volo quasi simultaneamente. È la seconda edizione dell’esercitazione “Elephant Walk” (nel 2018 furono 35 i velivoli coinvolti), una corposa attività addestrativa tesa a testare la capacità di rapido e massiccio dispiegamento in casi di risposta a una molteplicità di minacce. L’esercitazione era in programma da tempo, ma la coincidenza con la nuova crisi mediorientale fa pensare. D’altra parte, nella stessa giornata è arrivato il tweet di Donald Trump sulla “risposta sproporzionata” in caso di aggressione dall’Iran. C’è da notare che la US Air Force fece il suo debutto operativo con l’F-35 proprio in Iraq, lo scorso aprile, colpendo alcune postazioni dell’Isis. Pochi giorni prima i velivoli di quinta generazione (degli stessi reparti coinvolti nella Elephant Walk) erano arrivati alla base emiratina di Al Dhafra con l’obiettivo di rimpiazzare gli F-22 Raptors dopo cinque anni di attività e rafforzare la pressione sui talebani in Afghanistan e sulle ultime sacche di resistenza dello Stato islamico nell’area di Siria e Iraq.

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