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La campagna di Donald Trump ha chiesto più spazio alla politica estera nell’ultimo dibattito televisivo con Joe Biden. Formiche.net ha discusso di questa scelta e della strategia del presidente statunitense con Germano Dottori, docente di Studi Strategici della Luiss e autore del saggio La visione di Trump. Obiettivi e strategie della nuova America (Salerno editore).

Come leggere questa mossa da parte del presidente?

Trump sa che nel campo della politica estera può vantare dei successi importanti, che costringerebbero il suo avversario a riconoscerli, come del resto è già accaduto, in contesti ovviamente meno importanti di un duello televisivo con il rivale, almeno a proposito del trattato che ha sostituito il Nafta. Adesso tengono banco gli accordi di Abramo, che potrebbero essere estesi presto anche al Sudan, forse sul punto di modificare sensibilmente persino la natura del proprio diritto interno, incentrato sulla legge coranica. Sono altresì in corso trattative interessanti con la Russia in materia di disarmo. A Trump farebbe piacere parlarne. Probabilmente coglierebbe l’occasione anche per attaccare Biden in merito ai trascorsi di suo figlio Hunter in Ucraina e porlo sulla difensiva sullo spinoso dossier che riguarda il futuro dei rapporti con la Cina. A parole, l’ex vicepresidente si mostra duro con Pechino, ma tra chi sta investendo sulla sua elezione ci sono anche coloro che vogliono vedere archiviate le guerre commerciali con la Repubblica Popolare e non mancherebbero di far pesare il loro apporto all’eventuale vittoria di Biden.

Per il candidato democratico parlare diffusamente di politica estera sarebbe un problema?

Biden si troverebbe certamente in difficoltà e infatti il suo comitato elettorale si è opposto alla proposta di Trump di dedicare alla politica estera un intero dibattito. Non potrebbe criticare gli accordi di Abramo come anti-iraniani senza incorrere nel rischio di essere dipinto come un candidato favorevole al regime degli ayatollah, che non è popolare tra gli americani. Verosimilmente controbatterebbe riciclando i vecchi argomenti polemici che riguardano le interferenze russe nelle elezioni del 2016 e ribadendo l’accusa già rivolta a Trump di essere “un burattino di Putin”. Sulla Cina, tenterebbe di sfruttare le risultanze della recente inchiesta condotta dal New York Times, secondo le quali anche il presidente in carica avrebbe investito nella Repubblica popolare, dove esisterebbe anche un conto bancario a lui riconducibile. Sicuramente, un motivo d’imbarazzo. Sarebbe però importante per il mondo intero sapere cosa i due candidati alla Casa Bianca pensino di fare nel delicato campo della politica internazionale. Continuo a pensare che Trump non punti affatto a destabilizzare Pechino, ma a farle accettare la supremazia globale degli Stati Uniti. Nella testa del presidente americano il nostro pianeta dovrebbe articolarsi in sfere regionali d’influenza, al di sopra delle quali si troverebbe l’America. Una visione che alcuni anni fa enunciò Henry Kissinger nel suo World Order, un bel libro uscito anche in Italia.

Gli Accordi di Abramo e un’intesa (per ora verbale) sul trattato New Start con la Russia solo per citare gli ultimi risultati della politica estera trumpiana. Che cosa aspettarsi da un secondo mandato Trump?

Si dice che durante il primo mandato un presidente americano si occupi della propria rielezione, mentre nel secondo del suo posto nella storia, la legacy. Applicato a Trump questo dovrebbe tradursi in rinnovati sforzi per giungere a ulteriori accordi che vadano nella direzione della stabilizzazione complessiva del sistema internazionale attorno a un principio multipolare asimmetrico, in cui sfere d’influenza regionali coesistono con una funzione arbitrale d’ultima istanza esercitata dagli Stati Uniti. Una visione integralmente realista, che esporterebbe alla geopolitica una situazione di fatto già affermatasi nel sistema finanziario internazionale, il cui la Federal Reserve agisce da prestatrice di ultima istanza. Questo per quanto concerne le sue intenzioni. Cosa riuscirebbe a fare è altra storia: nulla lascia presagire minore opposizione alle sue iniziative. Subirebbe altri impeachment, che non lo abbatterebbero, ma ne limiterebbero le iniziative.

Mancano due settimane al voto, novembre è alle porte. Dobbiamo aspettarci un’altra October surprise in politica estera?

Sorprese sono possibili in molti ambiti, è un anno strano. Possono giungere altri accordi spettacolari, che verrebbero raggiunti sia per creare dei fatti compiuti in grado di condizionare Biden, che per provare a sostenere la riconferma di Trump.

Quali sono le principali differenze in tema di grande strategia tra Trump e Biden?

Sono notevoli. Trump pone al centro della propria visione il rispetto della sovranità nazionale degli Stati, mentre Biden la promozione della democrazia e dei diritti umani, che implica l’appoggio alle opposizioni interne ai Paesi che abbiano regimi autoritari, per destabilizzarli. Una prospettiva che non teme il caos, le cui conseguenze del resto non ricadrebbero sugli Stati Uniti, ma in primo luogo sui loro competitori e rivali, investendo però anche noi, com’è successo in Libia nel 2011. L’ex vicepresidente ha riproposto nella sua narrazione la parola smart, che richiama lo smart power: una cifra caratteristica della politica estera delle amministrazioni Obama, mai particolarmente interessata alla stabilità. Nell’accezione di Suzanne Nossel, che lo ha teorizzato, smart power significa affidare il perseguimento degli interessi americani a soggetti terzi (anche privati), che conserverebbero la ownership dei loro successi, permettendo all’America di rimanere dietro le quinte e risparmiare la propria forza economica e militare. Obama ereditò peraltro questo approccio dalla seconda amministrazione di George Walker Bush, che ne aveva esplicitato le caratteristiche in un passaggio della National Security Strategy del 2006, pubblicata non a caso dopo le prime rivoluzioni colorate. Non per caso, Bush è oggi al fianco di Biden, per il quale ha raccolto fondi. Contro Trump, che è detestato da tutti i neoconservatori, alcuni dei quali lo combattono apertamente, mentre altri hanno provato a dirottarne l’agenda dall’interno della sua amministrazione.

Che cosa dovrebbe aspettarsi l’Europa in caso di conferma di Trump? E se vincesse Biden?

Da Trump possiamo attenderci la continuazione di un’azione tesa al contenimento della crescente potenza della Germania, che peraltro caratterizzerebbe anche l’approccio di Biden agli affari europei. A Berlino attribuiscono i problemi esistenti nelle relazioni bilaterali con l’America all’attuale Presidente. Si sbagliano, c’è qualcosa di più strutturale. Del resto, difficoltà esistevano anche ai tempi di Obama. Dobbiamo essere chiari, bando alle illusioni: ogni tentativo di costituire l’Europa in una nuova grande potenza verrà ostacolato con decisione dagli Stati Uniti, chiunque si trovi alla Casa Bianca. E dal punto di vista di Washington, il master in command europeo è la Germania.

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