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Il 15 settembre 2008, all’una del mattino, ora di New York, Lehman Brothers ha annunciato l’intenzione di avvalersi del Chapter 11 del Bankruptcy Code statunitense (una procedura che si attua in caso di fallimento) annunciando debiti bancari per 613 miliardi di dollari, debiti obbligazionari per 155 miliardi e attività per un valore di 639 miliardi. Si tratta della più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti. Il fallimento della Lehman Brothers non è stato il momento più grave della crisi dei subprime loans, ma dato lo status dell’azienda nel Gotha finanziario internazionale, e le immagini di dirigenti ed impiegati (6500) che uscivano dalle porte di quello che era stato considerato per anni un Tempio dei “poteri forti”, portando i loro effetti personali in scatoloni, è diventato il simbolo dell’ultima grande crisi finanziaria internazionale.

In occasione del decennale, fiumi d’inchiostro ricorderanno l’ascesa e il declino dell’azienda – creata da tre giovani immigranti tedeschi alla metà dell’Ottocento e che da mercati di bestiame, sono diventanti imprenditori nel cotone e del caffè, hanno appreso l’abc della finanza nelle Borse merci per diventare (dopo una fusione quasi trentennale con American Express, 1969-1994) una delle più note e più prestigiose banche d’affari a livello mondiale. Sulla vicenda sono stati fatti film, serie televisive, drammi teatrali e si sono scritti numerosi saggi accademici. Quindi, in questa nota, mi limito a indicare i lineamenti generali di cosa è stato fatto in questi dieci per evitare che il mondo si trovi in una crisi analoga.

Occorre sottolineare che l’organizzazione internazionale che più si è adoperata per giungere a un nuovo e migliore quadro regolatorio è la Banca per i Regolamenti Internazionali (Bri), la cui sede centrale è a Basilea. Una serie di misure varate tra il 2010 ed il 2017 – e in gergo conosciute con il nome di Basel III – rappresentano una vera e propria riforma diretta a rafforzare la robustezza e la reattività al rischio di approcci standardizzati per valutare sia il rischio di credito sia i rischi operativi degli istituti, a meglio comparare i dati sulla capitalizzazione bancaria, a frenare l’uso di modelli elaborati all’interno dei singoli istituti e a complementare le analisi delle capitalizzazioni ponderate in base al rischio con informazioni sulle leve finanziarie degli istituti e sul capitale di base. Un vero e proprio corpus di base sulla regolazione finanziaria.

La Bri non ha funzioni e capacità ispettive; sta ai singoli Paesi decidere in che misura incorporare le convenzioni concordate (e ratificate) nelle legislazioni nazionali. Tuttavia, leggendo i rapporti annuali Bri ci si può fare, nel tempo (non dimentichiamo che il documento conclusivo è dell’anno scorso), un’idea del grado di applicazione delle nuove regole nelle maggiori aree economico-finanziarie.

Già da ora appare che non bisogna contare e puntare tanto sui cosiddetti “mercati emergenti”. Su questa testata, il 5 settembre, è stato presentato il recentissimo rapporto Ocse 2018 Business and Finance Outlook in cui si traccia un quadro sconfortato e sconfortante del maggior mercato emergente, la Cina il cui sistema bancario e finanziario è in un grande pasticcio (che rischia di essere la miccia di una nuova crisi finanziaria internazionale). Lavoro con cinesi (di Singapore e della Malesia, prima, e della Repubblica Popolare, poi) da circa cinquant’anni. Anche la Cina fa parte della Bri (ed uno dei due uffici regionali Bri è a Hong Kong, l’altro a Città del Messico) non credo che i cinesi ne ascoltino i consigli e ne applichino le convenzioni con rigore: si considerano la stirpe eletta tanto che nel XV secolo un loro Imperatore ordinò di chiudere le frontiere e distruggere la flotta (lasciando i mari alla Corea) in quanto temeva che ove si commerciasse con il resto del mondo si dava adito agli stranieri di carpire i segreti tecnologici del Celeste Impero.

Altra area emergente sembrava essere l’America meridionale: sappiamo tutti, dalle cronache dei giornali, che Argentina, Brasile e Venezuela poco o nulla hanno fatto per rimettere ordine nei loro sistemi finanziari. Al contrario sono in profonda crisi e potrebbe essere un altro focolaio di crisi internazionale.

Andando a nord nell’emisfero occidentale, gli Stati Uniti, la cui crescita economica pur galoppa, hanno rimesso mano alla normativa nel “dopo Lehman”. Difficile giudicarne i risultati. Secondo il settimanale The Economist è più complessa e opaca di prima. Non è poi stato risolto uno dei nodi di fondo: la preferenza data (tramite agevolazioni tributarie) all’edilizia (specialmente quella residenziale) rispetto al finanziamento di imprese.

Ed il continente vecchio? Nell’eurozona troppi istituti sono alle prese con crediti deteriorati o incagliati. È stata migliorata la normativa, a livello sia dell’area dell’euro che dei singoli Stati, sino a quando non sarà completata l’unione bancaria (con effettiva condivisione dei rischi almeno sui depositi in conto corrente) e non sarà stata ben avviata l’unione del mercato dei capitali, la costruzione resterà monca. E fragile.

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